Milano ha perso, Milano ha vinto. L’incredibile epilogo della procedura di assegnazione dell’Agenzia europea del farmaco è naturalmente uno smacco per la città che ha presentato il miglior dossier, ha conquistato una larga maggioranza dei voti (25) al primo turno delle votazioni, l’ha conservata al secondo, è arrivata al ballottaggio con la favorita di sempre (Amsterdam, oltre ad avere un dossier solido, era la preferita dai dipendenti dell’Ema) e si vede sconfitta soltanto nel rito grottesco del sorteggio, come se l’assegnazione di un’Agenzia europea con il suo indotto economico e sociale fosse un cantagiro di provincia. Eppure paradossalmente proprio il drammatico copione del pomeriggio di Bruxelles conferma la raggiunta competitività internazionale di Milano, l’unica metropoli italiana in grado di giocare – con chances di vittoria – le grandi partite europee. Conferma la capacità di Milano di fare squadra: nella maratona dell’Ema il Comune di Beppe Sala e la Regione di Roberto Maroni (che per accrescere le possibilità di successo ha addirittura acconsentito alla cessione della propria sede, il Pirellone) hanno corso con la stessa maglia. Insieme con le migliori energie della città, quelle che in tempi di ordinaria amministrazione sembrano sempre viaggiare ciascuna per la propria strada: Assolombarda, per esempio, ha promosso una gigantesca campagna di promozione della candidatura milanese, dai social network ai contatti diplomatici con gli imprenditori dei Paesi europei più influenti. Conferma infine che anche il governo nazionale – con il ministro della Sanità Lorenzin e il sottosegretario agli Affari europei Gozi in prima linea – ha fatto un buon lavoro: i 25 voti del primo turno sono più di quelli attesi e la tenuta nei turni successivi è un risultato rispettabilissimo di fronte a candidature forti come quelle di Amsterdam e Copenhagen. Rivali ben più corazzate rispetto a Bratislava, il cui paventato successo avrebbe rappresentato il trionfo della geopolitica in barba al “merito” della questione.
Non è la prima volta che Milano e il governo nazionale fanno gioco di squadra. Era già accaduto con l’Expo del 2015, questa volta non è bastato, ed è difficile trovare colpevoli al di fuori della cattiva sorte.
È un enorme peccato – e ciò spiega la delusione dei milanesi – perché Milano deve rinunciare alla prospettiva di una “terza vita” dopo quella manifatturiera del Dopoguerra e quella, che oggi sente un po’ stretta, di capitale nazionale della finanza e dei servizi. Non è soltanto una questione di numeri, i 900 dipendenti (con famiglie) che si sarebbero trasferiti a Milano, i 36mila visitatori ogni anno, notti in hotel, pranzi al ristorante, spese nelle boutique del centro, per un indotto che la Bocconi stimava in 1,7 miliardi di euro. Con l’Ema insediata al Pirellone, il prevedibile successivo convergere delle multinazionali farmaceutiche verso il loro catalizzatore, il probabile fiorire di centri di ricerca e di consulenza, la nascita e l’auspicata crescita dello Human Technopole (con annesse facoltà scientifiche delle università ed eccellenze della sanità milanese) nell’area Expo di Rho-Pero, Milano si sarebbe costruita una vocazione scientifica non più solo nazionale. Brillante, innovativa, proiettata nel futuro esattamente come quella di fucina della creatività, che con le Settimane della Moda, il Salone del Mobile e il FuoriSalone, BookCity e PianoCity ogni anno attira in città centinaia di migliaia di visitatori.
C’è poi un risvolto sociale, e perfino politico, tutto da valutare. Potenzialmente pericoloso. Finoa oggi le buone amministrazioni di Milano e i successi internazionali della città hanno frenato la crescita prima dei sentimenti, poi dei populismi antieuropei: il Movimento Cinque Stelle a Milano e in Lombardia è ai minimi nazionali, la Lega, fortissima nelle valli bergamasche e bresciane, non governa nessuno dei capoluoghi della regione.
L’esito «surreale»- come lo ha definito ieri sera il candidato del centrosinistra alle Regionali, Giorgio Gori – del voto europeo sull’Ema, assegnata con il sistema del sorteggio che perfino il calcio ha rinnegato da anni, rischia di rianimare le braci dell’antieuropeismo. Il leader della Lega Matteo Salvini non ha aspettato più di qualche istante, dopo l’annuncio dell’assegnazione in base alla pura sorte, per soffiare nel camino.
Non è la prima volta che Milano e il governo nazionale fanno gioco di squadra. Era già accaduto con l’Expo del 2015, questa volta non è bastato, ed è difficile trovare colpevoli al di fuori della cattiva sorte.
È un enorme peccato – e ciò spiega la delusione dei milanesi – perché Milano deve rinunciare alla prospettiva di una “terza vita” dopo quella manifatturiera del Dopoguerra e quella, che oggi sente un po’ stretta, di capitale nazionale della finanza e dei servizi. Non è soltanto una questione di numeri, i 900 dipendenti (con famiglie) che si sarebbero trasferiti a Milano, i 36mila visitatori ogni anno, notti in hotel, pranzi al ristorante, spese nelle boutique del centro, per un indotto che la Bocconi stimava in 1,7 miliardi di euro. Con l’Ema insediata al Pirellone, il prevedibile successivo convergere delle multinazionali farmaceutiche verso il loro catalizzatore, il probabile fiorire di centri di ricerca e di consulenza, la nascita e l’auspicata crescita dello Human Technopole (con annesse facoltà scientifiche delle università ed eccellenze della sanità milanese) nell’area Expo di Rho-Pero, Milano si sarebbe costruita una vocazione scientifica non più solo nazionale. Brillante, innovativa, proiettata nel futuro esattamente come quella di fucina della creatività, che con le Settimane della Moda, il Salone del Mobile e il FuoriSalone, BookCity e PianoCity ogni anno attira in città centinaia di migliaia di visitatori.
C’è poi un risvolto sociale, e perfino politico, tutto da valutare. Potenzialmente pericoloso. Finoa oggi le buone amministrazioni di Milano e i successi internazionali della città hanno frenato la crescita prima dei sentimenti, poi dei populismi antieuropei: il Movimento Cinque Stelle a Milano e in Lombardia è ai minimi nazionali, la Lega, fortissima nelle valli bergamasche e bresciane, non governa nessuno dei capoluoghi della regione.
L’esito «surreale»- come lo ha definito ieri sera il candidato del centrosinistra alle Regionali, Giorgio Gori – del voto europeo sull’Ema, assegnata con il sistema del sorteggio che perfino il calcio ha rinnegato da anni, rischia di rianimare le braci dell’antieuropeismo. Il leader della Lega Matteo Salvini non ha aspettato più di qualche istante, dopo l’annuncio dell’assegnazione in base alla pura sorte, per soffiare nel camino.
La Repubblica – ROBERTO RHO – 21/11/2017 pg. 1 ed. Nazionale.