Può sembrare un paradosso che il declino della sindaca di Torino Chiara Appendino somigli straordinariamente a quello della sua collega romana Virginia Raggi. Ecome la seconda era stata costretta a far saltare il cerchio dei suoi collaboratori più stretti in Campidoglio, anche la prima ieri ha dovuto far fuori il suo capo di gabinetto Paolo Giordana, per un’assai poco esemplare richiesta all’azienda dei trasporti di far cancellare una multa presa su un autobus. Va detto che il personaggio Giordana, funzionario comunale collaboratore in passato sia di politici di centrodestra sia di centrosinistra, non somiglia per niente ai Morra, Frongia e Romeo che circondavano di attenzioni la Raggi, intestandole perfino delle polizze di assicurazione, prima di finire agli arresti domiciliari o sotto inchiesta per svariati reati. Ma allo stesso modo era stato lo chaperon nei meandri della politica torinese della giovane Appendino, approdata in Consiglio comunale quando era sindaco Piero Fassino, e subito distintasi per un’opposizione puntuale e pervicace, alla quale certo non erano estranei i consigli di quel suo collaboratore, divenuto poi amico e assurto al ruolo di capo di gabinetto e quasi alter ego della sindaca subito dopo la conquista del Palazzo di Città. Eppure non potevano sembrare più diverse, agli inizi, le due sindache ora precipitate verso simili destini e simmetricamente imputate per falso in bilancio. Un’avvocatessa nata borgatara e professionalmente formatasi alla scuola dell’ex ministro e avvocato berlusconiano Cesare Previti, la Raggi. Una giovane signora borghese, figlia di imprenditore, poliglotta e educata nelle migliori scuole, l’Appendino. Una miracolata dal collasso per corruzione di entrambi gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra a Roma e dall’azzeramento della giunta Marino voluto da Renzi, la prima cittadina della Capitale. Una nata con la camicia che ereditava a sorpresa una delle amministrazioni più efficienti e una città vetrina in gran spolvero negli ultimi dieci anni dopo le Olimpiadi, quella di Torino. Tanto che mentre Raggi si dibatteva, puntellata giorno dopo giorno da Grillo e Casaleggio e via via commissariata da personale di fiducia dei vertici 5 Stelle, di Appendino si arrivava a parlare come volto-simbolo e possibile candidata-premier del Movimento al posto di Luigi Di Maio, oltre che interlocutrice rispettata di un Pd frastornato dalla sconfitta nella capitale industriale del Paese e deciso a insidiarne il successo affiancandola, invece che contestandola. Altri tempi: dal tragico 3 giugno del panico, del morto innocente e delle centinaia di feriti a Piazza San Carlo, all’avviso di garanzia per falso in bilancio, la caduta d’immagine della sindaca e il suo progressivo avvitamento nelle difficoltà sembrano ormai irreversibili. Senza tuttavia – e anche questo è un punto di contatto tra le due vicende di Torino e Roma – che il consenso attorno a lei risulti significativamente intaccato o si affacci il benché minimo rimpianto delle amministrazioni passate. Hanno un bel dire, Chiamparino e Fassino, che l’aspetto nuovo della città, l’integrazione del suo tradizionale tessuto imprenditoriale con le nuove vocazioni culturali e turistiche è stato costruito da loro, con il paziente e duro lavoro ventennale delle amministrazioni di centrosinistra. È sicuramente vero, anche se non sempre è tutto oro quel che riluce, ma nell’opinione della maggioranza dei cittadini, l’ora del cambiamento era arrivata e ancora non è passata. A ben vedere questo è ancora il problema, non solo di Torino, ma dell’Italia e degli italiani nel rapporto con i 5 Stelle: sebbene abbiano rivelato grandi e piccole incapacità in tutte le realtà in cui sono stati chiamati a governare, Grillo e i suoi (le sue, verrebbe da dire, pensando alle sindache che insieme nel 2016 portarono il Movimento alla vittoria più importante) appaiono ancora a una larga fetta di elettori come l’unica vera alternativa possibile alla sclerotizzata politica tradizionale, si tratti del ritorno in campo di Berlusconi e del centrodestra, seppure con l’iniezione di populismo di Salvini e Meloni, o delle pulsioni suicide del solito centrosinistra, con Renzi che non potendo più rottamare Bersani se la prende con il governatore della Banca d’Italia, il governo Gentiloni e alla fine, in un inspiegabile crescendo autolesionista, perfino con se stesso. Così se è difficile, forse impossibile, spingere M5S a essere diverso da quel che è, sarà almeno lecito, alla vigilia delle elezioni regionali siciliane di domenica prossima e delle politiche ormai prossime, chiedere agli altri di fare uno sforzo, finché c’è tempo, per tornare a essere affidabili. Anche se è molto difficile credere che ci riusciranno.
La Stampa – MARCELLO SORGI – 29/10/2017 pg. 1.19 ed. Nazionale