Flaccido, atletico, ossuto, tondeggiante, gracile, piazzato, basso, alto, bianco, nero. Non scegliamo in quale corpo nascere. E poi c’è il tempo, che continua a cambiare l’involucro nel quale siamo capitati. E dall’altra parte la volontà, che può scegliere di contrastare il passare degli anni con l’opzione radicale del bisturi («purché il chirurgo sia bravo») o di restare immobili, senza opporsi all’invecchiamento, e senza cercare di migliorare alcuna imperfezione, fosse solo con un filo di trucco o con un’ora di ginnastica. Generatore perpetuo di ansia esistenziale, il rapporto con il corpo: e dunque, che male c’è a voler cambiare il proprio aspetto per placare questa ansia? Claudia Sissa, professoressa all’Università della California e ricercatrice al Cnrs di Parigi, non condanna nessuno. Perché «non bisogna avere paura del corpo». Di questo, e del mito del fisico perfetto, la storica delle culture e delle idee parlerà al Festival dei Sensi di Valle d’Itria, in Puglia.
Professoressa, perché questa ossessione del corpo?
«In tutte le culture, anche le più diverse, notiamo che gli esseri umani sono consapevoli di trovarsi nel mondo come presenze (anche) estetiche. Sono “incorporati”. L’immagine del corpo prende forma da sensazioni infantili sparse, e poi da identificazioni diverse. È un’integrità ideale che tende a disgregarsi. Per di più non è mai indifferente: ci si ama e ci si odia. Da questa inquietudine nascono la cura del sé e la spinta all’abbellimento. Non vi si può sfuggire».
Perché?
«Perché siamo gettati nel mondo senza rete, e quindi con una fondamentale ansia, tra dipendenza dalle circostanze e libertà di costruire noi stessi. È una sfida. Ci chiediamo: il mio corpo è quello che è, adesso che ne faccio? Se rispondiamo a questa domanda siamo di fronte alla possibilità del cambiamento».
Più o meno radicale.
«È vero, ci sono varie strade. La prima: posso far vivere il corpo nella sua naturalezza, senza intervenire. Eppure qualcosa succede sempre, basti pensare all’età; il tempo di per sé impone una trasformazione. Seconda opzione: raccolgo la sfida e scelgo come accompagnare la trasformazione».
Propende per la seconda opzione, vero?
«Che lo voglia o no, io sono invitato a fare qualcosa del mio corpo. Posso coltivare un progetto di miglioramento, dalla salute alla gradevolezza (il perfezionismo è umiltà). Anche il fare niente è una scelta. Ed è espressione della stessa ansia, un rendersi complice del tempo. Trascurarsi è una forma di cura».
Perché riporta tutto a uno stato di ansia?
«Siamo nel mondo come animali ansiosi. Cosa faccio di questa ansia o cosa lei fa di me è la domanda chiave».
La risposta?
«Non si può sfuggire al senso della perfettibilità del corpo».
Allora che fare?
«Accettare che esiste un’immagine di sé e che questa ha una storia personale in una cultura particolare. La psicoanalisi dice che il corpo è uno degli oggetti transizionali del rapporto con i genitori. Ma a un certo punto sono io quello che prova ansia. E per viverla mi si offrono tante possibilità. Tra queste c’è il bisturi».
Il bisturi non è un segnale di un rapporto distorto con il corpo?
«No. Se si prende sul serio la dimensione ansiosa del rapporto con il corpo allora si relativizza il bisturi. Tutto sta nel vedere come si vive: bisogna sdrammatizzare il desiderio di perfezione perché l’anatomia non è un destino, ma la perfettibilità sì».
Per diventare cosa?
«Dipende. Alcune artiste, come Orlan, Cindy Sherman, Marina Abramovic, esaltano la pratica della significazione: io del corpo faccio linguaggio, una tastiera per realizzare un’antologia della storia dell’arte. Il messaggio è chiaro: con questo corpo posso riscrivermi, ridipingermi. Tutti temi che si possono affrontare con ironia, vero antidoto all’ansia».
Senza cadere nel ridicolo?
«Tutti i gusti (altrui) rischiano di farci ridere. Se è ingenuo pensare che ci sia una natura a cui non possiamo mettere mano, lo è altrettanto invocare il mito del “naturale a tutti i costi”. Si può invece collaborare con la nostra inevitabile metamorfosi».
In tanti modi.
«Trucco, diete, interventi estetici. Tutti in trasformazione: ricordiamo le bocche degli anni Duemila, i riconoscibili nasi anni Settanta e Ottanta, ora si vedono parecchie guance imbottite. Il problema è che si notano tante mani pesanti…».
È la moda a stabilire come migliorare la propria immagine?
«Premesso che anche lavarsi è un intervento sul corpo, è evidente che siamo ancorati a una certa società, alle sue sollecitazioni, ai suoi stereotipi. Questa è la vertigine, questa è la sfida moderna dell’individuo che si chiede “adesso che cosa faccio di me?”. Inquadrata in questo senso, la perfettibilità è un’esperienza dell’impossibilità della perfezione».
Vale a dire?
«La perfettibilità (parziale) è quello che ci resta. Perché la perfezione (assoluta) è impossibile».
Detto così è deprimente.
«La vita è un negoziato continuo con una serie infinita di decisioni. Io mi arrangio in un’esistenza in cui devo sempre preferire qualcosa. Tanto vale cercare il meglio possibile».
Lezione?
«Non moraleggiamo sull’ansia rispetto al corpo, ma sorridiamoci su: è una forma di consapevolezza esistenziale».
Impresa ardua.
«Riflettiamo sul fatto che il nostro rapporto con il corpo è dettagliato».
Sarebbe?
«Ci fissiamo sul peso. Poi c’è chi odia le gambe, il naso, la pancia. Tendiamo a vederci come parti disintegrate, dobbiamo accettarlo. Quest’auto-smembramento immaginario può rovinarci la salute, ma finché resta una semplice irrequietezza è normale».
Nel suo intervento del 24 agosto parlerà del mito del corpo dai Greci alle dive di Hollywood.
«Greci e Romani hanno fatto emergere la bellezza associata alla giovinezza, il corpo pensato nel tempo, idealizzato nelle proporzioni. Ammirandole, dimentichiamo la nostra imperfezione. Le icone del cinema sono immagini potenzialmente pericolose. Ma anche se non dobbiamo cadere nella fascinazione, l’antidoto non è la condanna».
Qual è il confine tra godimento estetico e volgarità?
«Ripeto, la scelta è individuale. Una volta che io accetto l’idea del “che cosa faccio del mio corpo”, devo capire come vivere in mezzo alla società delle immagini. La tentazione è usare piccoli determinismi come “la moda è colpevole”, “il cinema è colpevole” per liberarsi dall’ansia e cioè dalle decisioni. E no! Sono io che scelgo un codice a mio rischio e pericolo. E l’uso del codice è la mia libertà».
Non è così facile per le donne.
«La sfida per le donne del presente è saper usare linguaggi diversi».
E per gli uomini?
«Il rapporto del maschio con il suo corpo è molto più ansioso rispetto a quello della donna. Pensiamoci: se io mi preoccupo della coscia destra, quanto il mio compagno-collega-fidanzato si preoccupa del suo pene? Nella società in cui la mascolinità è più definita, la sfida dell’essere all’altezza è formidabile».
Gli uomini non ricorrono al bisturi.
«Meno delle donne, ma lo fanno. E comunque non c’è differenza tra silicone e palestra. Siamo imbarcati nella stessa finitezza. Ci piacciamo a pezzi, ci spiacciamo a pezzi».
Esiste un canone di bellezza oggettiva?
«No. Se ci fosse, ci saremmo già estinti da un pezzo».
- Domenica 20 Agosto, 2017
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