La cittadinanza viene assunta spesso come un dato ovvio, quasi naturale. Ce ne ricordiamo quando sembra che lo Stato non mantenga i suoi impegni, oppure quando dovremmo esercitare un diritto, ad esempio quello di voto. Non di rado avviene poi che all’esercizio di questo diritto, per una malintesa protesta, ci si sottragga. Eppure la cittadinanza è la dimensione politica dell’esistenza. Chi non è cittadino, chi elude obblighi e privilegi della partecipazione alla comunità, è come se non esistesse nello spazio pubblico, se si ritirasse nella sfera intima e privata, per quanto ciò sia davvero ancora possibile.
Qualcuno ha paragonato perciò il cittadino attuale a quello che, nel tardo Impero romano, si ripiegava chiudendosi in sé. Ma le cose sono oggi ben più complesse. La cittadinanza è attraversata da esplosive tensioni interne, non sempre messe nella dovuta luce. Quella più eclatante emerge in particolare nelle democrazie occidentali. E si può riassumere così: chi ha la cittadinanza da un canto quasi la disdegna, ne trascura i vantaggi, ne sottovaluta le potenzialità, dall’altro si oppone non di rado alla condivisione di questo diritto. Non vuole che si conceda la cittadinanza ad altri che non siano nati nella stessa nazione, che non siano cittadini per nascita.
Connessa strettamente ad altri concetti, anzitutto a quelli di politica e di democrazia, la cittadinanza ne subisce di riflesso i contraccolpi. Prevalgono così disinganno, frustrazione, malinconia, sebbene nel secolo passato sia caduta una frontiera dopo l’altra e la cittadinanza sia andata estendendosi nel segno del progresso. Basti pensare al diritto di voto conquistato solo qualche decennio fa dalle donne. Tuttavia, come riconosceva anche un illuminato liberale come Norberto Bobbio, scrutando a fondo la cittadinanza, libertà e uguaglianza non hanno proceduto di pari passo. Anzi è avvenuto il contrario. Certo, le donne sono finalmente cittadine, ma per via di pregiudizi, discriminazione, violenza sono a tutti gli effetti cittadine di seconda classe.
La cittadinanza non è sinonimo di uguaglianza. Tanto meno nell’ambito sociale, dove in nessun modo vengono, se non equilibrati, almeno attutiti emarginazione, sfruttamento, nuove schiavitù. Lo aveva detto con chiarezza già Marx parlando del «cittadino astratto» che formalmente è membro di una comunità politica, ma che materialmente può finire per esserne escluso. Gli esempi sarebbero innumerevoli. Importante è sottolineare che, anche a causa di una burocratizzazione della politica, ridotta a governance amministrativa, la cittadinanza, nell’estendersi, ha finito anche per svuotarsi, diventando un contenitore privo di significato vitale. È un fenomeno che si ripete in modo preoccupante: non solo per difendere i propri diritti sociali, ma perfino per tutelare le libertà fondamentali, ciascun cittadino fa leva sull’affiliazione. Che sia una corporazione, un gruppo, una famiglia in senso allargato, è in quanto affiliato, in quanto figlio, che il cittadino si fa valere. Chi è figlio, o figlia, senza padri, e senza patria, in cerca di adozione, resta fuori.
A incrinare ulteriormente la cittadinanza ha contribuito il cosiddetto «tramonto dello Stato nazione». Si tratta di un lungo tramonto, di cui non si vede la fine. Tuttavia la questione che si pone è abbastanza chiara. Nell’epoca della mobilità, del mercato globale, delle reti telematiche, del web, lo spazio pubblico si è dilatato sino a diventare, grazie alla comunicazione, spazio internazionale. La società civile è ormai il mondo stesso. Il cittadino del terzo millennio prende parte agli eventi che si susseguono, anche quelli dall’altra parte del globo, consapevole che lo riguardano, che lo toccano direttamente. La sovranità del suo Stato diventa allora un problema. Perché da un canto gli offre, proprio con la cittadinanza, una protezione, dall’altro lo trattiene all’interno di confini chiusi continuamente attraversati dal vento della globalizzazione.
Ecco già qui un pomo della discordia. C’è chi è soddisfatto del suo scudo nazionale, il sovranista convinto, c’è chi invece crede che sia tempo di pensare a una cittadinanza senza Stato e, prima ancora, senza nazione. Vale la pena sottolineare che i sovranisti, anche quelli dell’ultima ora, che pretenderebbero di rilanciare la democrazia diretta attraverso il web, non fanno che rispolverare nostalgicamente il modello della polis classica, la città organica al cui centro svettano i monumenti della verità, della virtù, della solidarietà civica. Come se vivessimo nell’Atene di Aristotele, anziché in un complesso mondo multietnico.
Nel terzo libro della Politica , che fa testo in materia di cittadinanza, Aristotele scrive che non è sufficiente abitare in una città per essere cittadini; altrimenti potrebbero esserlo anche gli stranieri. Non sono cittadini i ragazzi, né i vecchi, oramai esenti da incarichi. Per non parlare delle donne e degli schiavi, esclusi da sempre. Cittadino è l’uomo libero, in senso molto concreto, quello cioè che, non dovendo occuparsi dei bisogni vitali, non dovendo lavorare, può dedicarsi alla politica ricoprendo cariche pubbliche. Può eleggere ed essere eletto. Occorre considerare — suggeriscono gli studiosi — numeri ridottissimi: forse 30 mila cittadini, con un quorum di 6 mila e un’assemblea di 500 membri. Ecco, dunque, la democrazia diretta che assume tonalità molto aristocratiche quando Aristotele aggiunge che è cittadino chi discenda da genitori ateniesi. La cittadinanza non è solo partecipazione, ma anche lascito naturale. Insomma cittadini si nasce. Proprio questa omogeneità garantirebbe l’amicizia civile e la «vita buona».
Di questo modello aristotelico resta oggi molto più di quanto non si immagini: non solo la convinzione che la cittadinanza si erediti, con lo ius sanguinis e lo ius soli , attraverso il sangue, e grazie a una non meglio specificata proprietà del suolo, ma anche l’idea di una comunità etnica in cui ciascun membro è integrato al tutto. Quel che conta, oltre all’autodeterminazione, è l’appartenenza.
A questo modello repubblicano si oppone quello liberale che deriva invece dal filosofo inglese John Locke. Il cittadino, quasi suo malgrado, stipula un contratto, cede poteri allo Stato, che in cambio gli offre alcuni servizi. È il cittadino cliente, il privato sempre un po’ fuori dalla cornice collettiva. Nel primo modello prevale la comunità, nel secondo l’individuo. Non sarà difficile riconoscere nel primo modello quello che più ha dominato nel contesto europeo continentale, nel secondo quello che ancora si impone nel mondo angloamericano.
In un importante saggio sul tema della cittadinanza Jürgen Habermas ha sottolineato un pregio decisivo del modello repubblicano: l’autodeterminazione. Anche per l’oggi deve essere chiaro che democrazia e autonomia politica sono «un fine a sé che nessuno può realizzare da solo perseguendo privatamente i propri occasionali interessi». D’altronde governare ed essere a turno governati non è stato il grande ideale di Rousseau? L’autolegislazione, la sovranità popolare — riprese anche da Kant?
Ma in quello che chiama già un orizzonte «post-nazionale» Habermas lancia un monito alle nazioni, in particolare a quelle più attardate, come Germania e Italia. Il pericolo, nel modello repubblicano, sta proprio nella cittadinanza legata alla nascita. Da qui è sorta la «finzione» dello Stato nazionale. Infatti l’etimologia di «nazione» deriva, non per caso, dal verbo nasci , nascere. Come se una comunità politica possa essere retta da una discendenza genetica piuttosto che dalla prassi dei cittadini che esercitano attivamente i loro diritti. Non è più accettabile che sangue e suolo, anche alla luce del passato europeo più recente, definiscano i criteri della cittadinanza. Lo sapevano bene i repubblicani francesi che scrissero la Costituzione rivoluzionaria del 1793 dove, all’articolo 4, si concedeva la cittadinanza a ogni straniero che avesse risieduto un anno in Francia.
Si deve però osservare che un’ambiguità è contenuta nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, quella sorta di atto di nascita della moderna cittadinanza. È un’ambiguità che ha visto Hannah Arendt e molti dopo di lei. In un mondo spartito fra gli Stati-nazione si guarda solo ai diritti del cittadino. Ma che ne è dei diritti umani degli apatridi, dei senza-Stato, dei profughi? Sta qui, secondo Étienne Balibar, il confine della democrazia che poco democraticamente decide per coloro che ne sono fuori e chiedono di entrare.
Nell’antichità sono stati i Romani, quasi per necessità, per l’estensione del loro dominio, a concepire e realizzare un’altra cittadinanza. Prima connessa alla nascita — era cittadino solo un uomo libero di padre romano — si svincola via via fino a diventare, con l’editto di Caracalla del 212 d.C., una condizione non più etnica, bensì giuridica, riconosciuta a tutti i cittadini liberi dei territori imperiali.
Di questo si discute oggi: di una cittadinanza che finalmente distingua, anzi separi, il demos dall’ ethnos , il popolo dall’etnia. Semplicemente perché può e deve esserci un popolo multietnico. La democrazia è la sovranità del popolo in quanto demos . In nessun caso deve essere confinata a un ethnos , a un’appartenenza etnica di memoria e di destino. Si può parlare allora di una cittadinanza globale, come propone ad esempio Seyla Benhabib.
Il che vuol dire accettare le sfide del terzo millennio in almeno due direzioni. Anzitutto nel senso di una nuova democrazia cosmopolitica, che in parte già esiste, dato che essere cittadini del mondo — sostiene Daniele Archibugi — non è più solo una metafora. Ma anche nel senso della cittadinanza intesa come accoglienza. Solo lo «sciovinismo del benessere», scrive Habermas, può rendere ciechi al riguardo. Il diritto all’autodeterminazione riguarda i princìpi democratici. Sebbene la presenza di stranieri sia motivo di confronto e dialogo, la condivisione con i nuovi arrivati non è necessariamente condivisione della propria tradizione etnica, della propria forma di vita, dei propri valori, bensì della cultura politica, imprescindibile per la cittadinanza. Forse questa è la via anche per riscoprire il privilegio di essere cittadini.
- Domenica 13 Agosto, 2017
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