Ricorre in questi giorni il decennale della tempesta finanziaria perfetta, scoppiata negli Usa con i subprime e trasferita poi al resto del mondo, in specie all’Europa, mentre in America si riusciva efficacemente a contrastarla con una gigantesca immissione di liquidità da parte di Tesoro e Federal Reserve. Gli Usa applicavano l’insegnamento di Keynes. L’Europa ha invece tardato molto a capire la lezione keynesiana e ha impostato l’azione di contrasto facendo leva su una cieca austerità, rinsaldata in questa linea allorché la crisi dalla finanza si trasferì sui debiti sovrani e da questi sui sistemi bancari. Anziché l’insegnamento del più grande economista del ‘900, l’Unione senza esserne consapevole ha seguito la linea dei medici del ‘600, che per guarire i malati spesso praticavano i salassi e, poiché altrettanto di frequente gli ammalati non guarivano, la causa veniva individuata nella poca quantità dei salassi praticati, sicché si continuava a farne fino a che l’ammalato, debilitato, moriva. In sostanza l’ammalato originario che ha diffuso il virus, ossia gli Usa, è guarito rapidamente, mentre gli infettati, in primis l’Europa, solo ora cominciano a intravedere segni di ripresa dell’economia. Nonostante tutto la lezione non è servita quasi a nulla, insistendosi, da parte delle istituzioni comunitarie sotto l’influenza tedesca, sulla linea che può ancora essere ricondotta all’austerità cosiddetta espansiva, sia pure temperata dall’escamotage della flessibilità nell’applicazione delle regole sui conti pubblici. Di fatto la Bce ha finito con lo svolgere anche una funzione di supplenza dell’inerzia e dei ritardi delle politiche nazionali e dell’impostazione rigoristica delle predette istituzioni. Dalla dichiarazione londinese del luglio 2012 sulla salvaguardia della moneta unica la Bce è stata l’unica istituzione che ha ottemperato efficacemente al proprio mandato contrastando, per la parte che le spettava, la crisi. Invece la risposta della Vigilanza bancaria unica è stata in parte carente, in parte disastrosa. In Italia si è tardato a lungo nell’assumere l’atteggiamento precauzionale consistente nel fare ricorso alle risorse comunitarie per la stabilità del sistema bancario. Hanno concorso il timore dello stigma, il rischio dell’aggravamento degli impatti sui conti pubblici, il timore dell’avvento della Troika, ma anche una convinzione che la situazione non fosse così grave da rendere necessario il ricorso all’Unione. Si trascurava l’impatto che i già molti anni di crisi avrebbero esercitato sulle imprese e, per tale via, sulle banche. Alla fine si è deciso di non fare appello all’Europa. Pur valutando serenamente pro e contra, si può dire che fu un errore, quello commesso dal governo Monti, di escludere il ricorso per le banche ai fondi europei, a cui si supplì varando il programma domestico dei Monti bond. Un errore successivo fu quello di non contestare fino in fondo il progetto di direttiva comunitaria sulla risoluzione delle banche che poi è sfociato nella Brrd. Per le politiche economiche e di finanza pubbliche nonché per le politiche di regolazione e controllo sul credito vi è molto da rivedere. Sarebbe più che doveroso che i diversi organi competenti, nazionali ed europei, ponessero all’ordine del giorno il tema degli insegnamenti della crisi, che invece appaiono del tutto trascurati. Sta avvicinandosi il momento in cui occorrerà prendere una decisione sul Fiscal compact: l’Italia dovrebbe agire non solo per escluderne l’introduzione nel diritto comunitario, ma anche per modificarlo significativamente. Del pari la Direttiva Brrd va rivisitata. Sono, questi citati, i due pilastri sui quali incardinare una revisione più generale che riguardi l’unificazione delle normative in materia bancaria e finanziaria e le politiche europee di investimento. Sono altresì i passaggi che potranno dirci se si può proseguire sulla strada dell’integrazione di bilancio e poi verso quella politica tout court, cominciando con il rivedere e attuare il programma di Unione bancaria. Se questo percorso risultasse bloccato, allora bisognerebbe fare attenzione nel trasferire sovranità, perché non si tratterebbe di esercitarla con altri a un più alto livello bensì soltanto di cederla senza adeguate contropartite. Il cambiamento si impone: se lo si impedisce o lo si vuole attivare in direzione opposta a quella da perseguire, allora c’è da fare chiarezza sui fini dell’Unione e sulle ragioni dello stare insieme.
MF – Angelo De Mattia – 09/08/2017 pg. 2 ed. Nazionale.