La fine dei centri commerciali.

 

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I nuovi consumi Da Bebe a Rue21, in un solo trimestre le catene hanno chiuso 8.600 negozi di mattoni e cemento Così Amazon svuota le piazze degli americani
Il simbolo degli Stati Uniti sconfitto dall’e-commerce E le città cambiano faccia
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK. Dalla Quinta Strada di Manhattan fino alla provincia profonda del Minnesota, il paesaggio urbano degli Stati Uniti è sconvolto da una nuova rivoluzione. Un’ecatombe di negozi, grandi magazzini, centri commerciali, decimati dall’avanzata inesorabile del commercio online. La crisi è profonda e non ha solo una dimensione economica: investe un business che è anche un simbolo dell’American Way of Life, uno stile di vita, perfino un luogo di aggregazione sociale. Dai tempi del film retrò American Graffiti un rito iniziatico dell’adolescente americano era l’uso dell’automobile per andare a incontrare i suoi coetanei nei piccoli centri commerciali di provincia, le prime concentrazioni dove si univano supermercati, fast food, cinema all’aperto. Negli anni Cinquanta nacquero i primi shopping mall, cattedrali nel deserto dell’America profonda, che attorno al consumismo costruivano occasioni d’incontro, un modo per riempire il tempo libero, una caricatura ipermoderna delle piazze medievali del Vecchio Continente. Nel 1962 Sam Walton cominciò l’avventura di Walmart, gli ipermercati che a loro volta hanno incarnato per decenni un American Dream fatto di carrelli della spesa extra large e strapieni, Suv caricati a buon mercato, grazie allo “sconto cinese”.
Ora tutto questo sta tramontando a una velocità impressionante.
Fotografi e artisti amanti del macabro percorrono l’America in cerca di shopping mall in bancarotta, le nuove “ghost town” del nostro tempo, città fantasma, colossi abbandonati per mancanza di clienti. La middle class di “Suburbia”, come vengono definiti i quartieri residenziali delle periferie, con le loro villette monofamiliari, i giardini e il garage, sta perdendo il gusto di quelle spedizioni familiari che nel weekend avevano una destinazione favorita, lo scintillante shopping mall dove ciascuno ne trovava per i suoi gusti. Ora nella villetta monofamiliare ciascuno se ne sta chiuso in camera sua, a dialogare sui social media, o a ordinare su Amazon. Un camioncino dell’Ups fa tappa davanti all’uscio di casa per lasciare una pila di pacchi delle consegne a domicilio. E gli shopping mall, deserti, falliscono uno dopo l’altro. Non solo loro. Tutta la grande distribuzione, dalle boutique di lusso ai supermercati ai grandi magazzini, vive la stessa angosciante decadenza proprio nel Paese che l’aveva inventata. È anche il paesaggio dei centri cittadini che rischia di essere irriconoscibile entro breve, se i consumatori rimangono a casa per fare la spesa chi andrà ancora in giro a guardare le vetrine? Si salvano ancora quei magneti del turismo globale che possono compensare la scomparsa del consumatore locale con le frotte di cinesi e russi, italiani e francesi: per adesso questo sta salvando luoghi come la Quinta Strada e Soho a Manhattan, o Beverly Hills a Los Angeles. Che però assomigliano sempre di più al duty free dell’aeroporto di Dubai, stesse griffe, stessi marchi, la scomparsa di qualunque riconoscibilità locale.
L’ultimo bollettino di guerra (per ora) narra dei 170 negozi chiusi da Bebe, un marchio di moda che sembrava lanciatissimo ancora pochi anni fa ed ora si riconverte per vendite solo online. La catena di moda per adolescenti Rue21 chiude 400 negozi su 1.100. Sono due esempi fra tanti in un settore delle vendite al dettaglio che qui in America ha visto 8.600 chiusure solo nel primo trimestre di quest’anno: peggio che durante la grande crisi del 2008.
Eppure stavolta non siamo in recessione, tutt’altro. Quel che accade è dovuto a un cambiamento repentino di abitudini e comportamenti tra i consumatori. L’intero mondo della distribuzione “fisica”, con punti vendita su strada, dagli shopping mall alle boutique di nicchia, ha eliminato 50 mila posti di lavoro dall’inizio di quest’anno e siamo solo ai prodromi del disastro. Secondo uno studio di un’azienda immobiliare specializzata negli shopping mall, la Ggp, i centri commerciali per ri-dimensionarsi su misura della spesa attuale dovrebbero chiudere il 30% dei loro spazi e licenziare quasi cinque milioni di persone. È un atto di morte, nella nazione che aveva inventato il modello e lo aveva esportato nel resto del mondo.
E ancora c’è spazio di crescita per il commercio online. Le vendite su Internet sono ancora sotto il 10% del totale e già hanno provocato cotanto sconquasso. Figurarsi cosa può accadere in futuro. Il modello di partenza lo hanno offerto libri, Cd e video, dove l’avanzata di Amazon e dei suoi emuli fu formidabile, al punto che oggi in quei settori oltre il 60% delle vendite sono online. Seguono la stessa curva di apprendimento il settore dell’elettronica e delle forniture per uffici, già vicini al 40% di vendite su Internet. Stanno facendo la stessa fine i giocattoli per bambini, forse perché la rinuncia a visitare di persona i negozi ha sollevato i genitori da uno stress? Ogni luogo comune ha vita effimera, si diceva che mai ci saremmo rassegnati a comprare vestiti e scarpe senza provarli fisicamente, e invece è questo uno dei settori di maggior crescita delle vendite online. Anche qui Amazon ha fatto da pioniere ma molti applicano la ricetta: velocità delle consegne, facilità nel restituire la merce di cui non si è soddisfatti e ottenere l’immediato rimborso. Amazon è arrivata in ritardo nell’ultima frontiera che è la spesa per alimenti freschi, ma ora cerca di recuperare il terreno con l’acquisizione dei supermercati salutisti Whole Foods. Nomi gloriosi come Macy’s e Penney, icone del consumismo americano, attraversano crisi esistenziali dagli sbocchi incerti. E la nuova geografia delle città salpa verso destinazioni sconosciute.
fonte:La repubblica, http://www.repubblica.it