di Maurizio Ferrara
L’economista americano Joseph Stiglitz, premio Nobel nel 2001, è una presenza tra le più autorevoli nel dibattito pubblico internazionale. Ci siamo confrontati con lui sulle questioni più attuali all’ordine del giorno.
La pandemia da Covid-19 ha promosso un ritorno dell’intervento pubblico. Si è chiuso il lungo ciclo neoliberista durato mezzo secolo. Sin dagli esordi, lei è stato una delle voci più critiche verso questo approccio. Cosa spiega la lunga egemonia neoliberista e quale bilancio possiamo trarne?
«Negli anni Settanta e Ottanta negli Usa ci fu un aspro conflitto fra economisti: io stavo dalla parte di chi sosteneva i limiti del mercato; Milton Friedman ne lodava le virtù. Secondo me non c’erano proprio le basi teoriche per le tesi neoliberiste».
Eppure in pochi anni le tesi di Friedman divennero dominanti.
«I motivi vanno cercati nel crescente potere delle imprese e nelle vittorie di Reagan e Thatcher. Sin dagli anni Trenta, soprattutto in America il mondo imprenditoriale aveva combattuto le politiche keynesiane. Negli anni Settanta si prese la rivincita. La Reaganomics non segnò solo la sconfitta del paradigma keynesiano, ma anche l’avvio di una battaglia per la redistribuzione delle risorse a favore delle imprese e dei ceti più abbienti».
Il neoliberismo è però sopravvissuto sia a Ronald Reagan che a Margaret Thatcher.
«I leader di centrosinistra che vennero dopo non rinnegarono il neoliberismo, ma si limitarono a temperarlo. Bill Clinton teorizzò la strategia della triangolazione: ascoltare pareri sia di destra sia di sinistra e poi elaborare una “terza” posizione, presentata come sintesi delle proposte migliori di entrambe le parti. In Europa fecero lo stesso Tony Blair e Gerhard Schröder. Con il risultato che anche il centrosinistra sviluppò venature neoliberali».
Intanto era cambiato il contesto, l’impero sovietico si era disgregato.
«Questo giocò a favore della “triangolazione”: la Reaganomics è fallita, il socialismo è fallito, bisogna inventarsi una terza via. La sconfitta del comunismo ebbe anche un altro effetto, in particolare sulle politiche di assistenza allo sviluppo. A causa della sfida sovietica, le istituzioni finanziarie internazionali avevano sempre cercato di promuovere un’economia di mercato dal volto umano, attenta ai più deboli. Crollati l’Urss e il suo modello economico, tali istituzioni e cominciarono a hiedere ai Paesi in via di sviluppo misure drastiche di liberalizzazione».
Fu la ricetta raccomandata anche ai Paesi ex socialisti.
«Esatto: terapie shock per passare subito al mercato. Io mi schierai contro il cosiddetto Washington consensus. L’errore più grave fu commesso in Russia. Invece di promuovere la transizione alla democrazia, si scelse di fornire risorse alla vecchia guardia. L’economia di Stato venne smantellata, ma i nuovi oligarchi non crearono quelle che chiamo “infrastrutture leggere” a sostegno del mercato, soprattutto un efficiente quadro normativo. Le terapie shock hanno creato enormi diseguaglianze, insieme a un capitalismo predatorio».
Anche l’Ue affrontò la crisi finanziaria con un approccio neoliberista, o meglio ordoliberale. Le élite tedesche, in particolare, diventarono paladine dell’austerità e si opposero a ogni trasferimento fra Stati. Il cosiddetto azzardo morale (la supposta inesorabile inclinazione a spendere di più se un governo riceve aiuti) diventò un’ossessione. La riforma del patto di stabilità nel 2011 creò una stringente camicia di forza, che rischiò di strangolare le economie più deboli.
«Assolutamente d’accordo. Una unione senza trasferimenti non è una unione. L’architettura dell’euro e del patto di stabilità hanno provocato divergenza anziché convergenza. Fortunatamente il tabù del debito comune è caduto durante la pandemia. Il programma Next Generation Eu è un grande passo in avanti, ma manca ancora una struttura fiscale permanente, basata su imposte comuni sulle transazioni digitali, sui profitti, sulle grandi ricchezze».
La guerra in Ucraina ha cambiato il quadro. L’aumento dei costi dell’energia rischia di vanificare i benefici dei fondi Ngeu e di provocare una nuova recessione.
«La priorità assoluta è accelerare la transizione energetica. Ciò avrebbe un triplice vantaggio: una lotta più efficace contro il cambiamento climatico, meno dipendenza dalla Russia e più stimoli all’economia. Gli investimenti in energie rinnovabili possono creare occupazione anche per lavoratori a basse qualifiche».
La riconversione energetica richiede tempo.
«Molte fonti rinnovabili possono essere rese disponibili rapidamente. La pressione congiunta della guerra e dell’emergenza climatica dovrebbe spingere l’Europa verso una grande mobilitazione, come in tempi di guerra».
Lei ha coniato l’espressione «capitalismo progressista». Quali sono i tratti distintivi di questo nuovo sistema? Le riforme che lei propone valgono anche per l’Europa, considerando che il nostro capitalismo è diverso da quello americano?
«I valori che ispirano il capitalismo progressista — equità, inclusione, prosperità diffusa — valgono sia per gli Usa sia per l’Europa. L’assunto di base è che il sistema economico debba porsi al servizio dei cittadini e non viceversa. Quando si dice che gli individui o la democrazia devono conformarsi alla logica di mercato, si dimentica che questa alimenta mentalità e comportamenti dominati dall’auto-interesse, dall’avidità, i quali indeboliscono la sensibilità verso i beni comuni».
Capitalismo e mercato non hanno solo difetti, ma anche qualche merito.
«Sicuramente. Producono incentivi per aumentare l’efficienza, creare sempre nuovi prodotti, stimolare l’innovazione. Un’economia ben funzionante richiede un sistema produttivo decentrato, imperniato su una moltitudine di attori. Ci vuole quella che io definisco una “ricca ecologia di organizzazioni”: fra queste trovano posto anche quelle guidate dalla logica del profitto. Ma questa logica da sola può generare dinamiche di sfruttamento».
Lord Beveridge, economista e sociologo britannico, diceva che la ricerca del profitto è un buon servitore ma un cattivo padrone.
«Proprio così. Le imprese che producono farmaci o cibi dolci sfruttano le dipendenze delle persone, quelle che fanno auto sfruttano l’ambiente. Per questo è importante che le imprese private siano affiancate da organizzazioni senza fini di lucro, cooperative, fondazioni. E che ci sia anche lo Stato».
Lo Stato può agire a sua volta in modo predatorio. I politici hanno bisogno del consenso, accanto a funzionari pubblici «illuminati» ci sono molti burocrati guidati solo da logiche amministrative, in alcuni casi inclini alla corruzione.
«Così come il mercato, lo Stato deve essere sottoposto a regole trasparenti, che lo incentivino a dare conto delle proprie decisioni».
In Europa l’agenda per un «capitalismo progressista» non deve costruire il welfare state, ma riformarlo.
«Durante la crisi finanziaria si disse che i problemi dell’Europa derivavano da un eccesso di protezioni sociali. Non è così. Il welfare va piuttosto rinvigorito, anche se ricalibrato. Deve occuparsi non solo degli anziani, ma anche di giovani e donne. Istruzione, formazione e inclusione sono le sfide da affrontare».
A proposito di istruzione, negli Usa si discute su quella che il filosofo Michael Sandel chiama «tirannia del merito».
«Gli Usa hanno un serio problema di diseguaglianza. Il contesto di provenienza influisce ancora in maniera determinante sulla mobilità sociale delle persone. Le nostre università stanno facendo molti sforzi per incentivare e facilitare l’accesso dei giovani svantaggiati. È la scuola ad essere in crisi profonda: a quella pubblica mancano sostegni, è costretta ad ammortizzare tensioni sociali che andrebbero affrontate in altro modo».
Un futuro «progressista» coniugherebbe dunque eguaglianza e opportunità, protezione e promozione sociale, Stato e mercato ben regolati, dinamismo e diversità di istituzioni, logiche, contesti. Una sorta di progetto «neo-tocquevilliano».
«Aggiungerei pluralismo, tolleranza, conoscenza, ricerca, innovazione. E soprattutto inclusione, beni collettivi e capacità di individuare e agire secondo l’interesse generale».