Raul Gardini eroe tragico

di Gianluca Barbera e Elena Stancanelli

Gardini chi? L’anno prossimo cadranno i trent’anni dalla scomparsa di Raul Gardini (Ravenna, 7 giugno 1933-Milano, 23 luglio 1993); fin da ora si accende l’attenzione sull’industriale, imprenditore e dirigente d’azienda: dal 1979 al 1991 alla guida del gruppo Ferruzzi, protagonista negli anni Ottanta della scalata a Montedison, coinvolto nell’inchiesta Mani pulite e morto suicida. Due romanzi da poco usciti l’hanno messo al centro della narrazione: Il tuffatore di Elena Stancanelli e L’ultima notte di Raul Gardini di Gianluca Barbera: «la Lettura» ha fatto incontrare gli autori.

Com’è nata l’idea di raccontare la figura di Gardini e, attraverso di lui, una famiglia, un Paese, un’epoca?

ELENA STANCANELLI — Da una circostanza biografica e da una serie di coincidenze, che ho messo insieme per creare un modo di raccontare costruito attraverso un continuo rimandarsi di fatti e di persone. L’aspetto biografico è che mi capitò di frequentare Ravenna nell’epoca d’oro di Gardini, quella in cui ne era l’imperatore; il fratello di mio padre era medico lì e durante le feste ci spostavamo tutti da lui. A questo fatto si aggiunge una serie di circostante, come dei link, strani incontri tra la mia vita e la vita di Gardini. E quella di Fabrizio De André. È un romanzo, ma non in senso tradizionale.

Input più convenzionale, Barbera…

GIANLUCA BARBERA — Sono un cercatore di storie e di personaggi. Ho scritto di Magellano, Marco Polo, Jesse James, di personaggi che hanno compiuto grandi avventure geografiche o storiche. Ho considerato Gardini un personaggio storico, non di cronaca. Le persone si appassionano alle storie. Gardini è sempre stato contro tutti. Diceva: «La chimica sono io». Oppure: «Per me l’opinione degli altri non conta nulla»; frasi che lo inquadrano in una maniera un po’ antipatica, a me ha sempre affascinato questo suo atteggiamento. Occorre guardare alle sue origini: lui è un outsider, non possiamo accostarlo a grandi famiglie come gli Agnelli, i Pesenti, i Pirelli, i De Benedetti. Viene da una famiglia benestante, niente di più: proprietari terrieri, avevano fatto bonifiche. Era chiamato il contadino.

I due libri partono da lontano, da Serafino Ferruzzi (1908-1979), fondatore del gruppo, e ricostruiscono l’avventura dell’imprenditoria italiana.

ELENA STANCANELLI — La figura di Gardini funziona meglio partendo da Serafino, mi interessava la storia di una grande famiglia di imprenditori italiani. Una delle sfide era trasformare in materia narrativa, in linguaggio romanzesco, l’economia, la storia dell’economia, la storia dell’impresa. Ho studiato approfonditamente per poterle restituire in maniera semplice. Mi sembrava necessario non eludere quei passaggi, un po’ perché raramente la narrativa italiana si occupa di denaro, economia, impresa, che in certi casi, come con Gardini, raccontano con esattezza che cos’è questo Paese. E poi perché non si può raccontare la storia dell’epopea dei Ferruzzi senza spiegare che cos’è successo sul piano economico.

Barbera, lei alle parti di ricostruzione storica affianca un linguaggio quasi cinematografico, per dialoghi e scene.

GIANLUCA BARBERA — Fin dall’inizio ho pensato che avrei venduto questa storia al cinema. Mentre Serafino Ferruzzi è una persona chiara, forse perché legata a un’altra epoca, Gardini è enigmatico, ha sogni di grandezza ed è disposto a tutto. Ed è uno di poche parole, solitario, con rari amici. Nelle interviste pronuncia frase smozzicate e sempre ben calibrate. È una figura indecifrabile. La materia perfetta per un narratore, i chiaroscuri sono una manna. Mi sono chiesto quali fossero gli elementi che meglio lo distinguevano. Uno è la passione per il mare, legato al suo lato avventuroso: ha partecipato in prima persona a decine di regate. In una, quella in Cornovaglia, ha rischiato di morire. Il romanzo è in terza persona ma le vicende aziendali, storiche ed economiche sono narrate dai personaggi che il protagonista (Marco Rocca, un giornalista che sta scrivendo un libro, ndr) via via incontra. L’uso della prima persona consente un racconto con un taglio personale e anche ambiguo, che non sempre corrisponde ai fatti.

Entrambi giocate, nei libri, con titoli alternativi. Come siete arrivati a quelli in copertina? E perché?

ELENA STANCANELLI — Per me sono la cosa che arriva per ultima. Cercavo un attributo, a Gardini ne sono stati dati tanti: contadino, ma anche pirata, visionario. Ognuno racchiudeva una parte del carattere. Prima di ogni cosa è un maschio romagnolo, come tale ha in sé quella spregiudicatezza, quel coraggio, forse anche quell’essere un po’ sborone, eccessivo nelle sue manifestazioni. Mi piaceva trovare un epiteto che racchiudesse le sue caratteristiche: il tuffatore. Da una parte è la verità: Gardini era molto bravo, una delle tante leggende romagnole su di lui vuole che Idina (Ida Ferruzzi, moglie di Gardini scomparsa nel 2008, ndr) se ne fosse innamorata vedendolo tuffarsi dal molo di Ravenna quand’erano ragazzini, uno di quei tuffi ad angelo per cui era celebre. Dall’altro perché tuffarsi è una metafora che sembra attagliarsi molto al personaggio. Cito nel libro il saggio di Raffaele La Capria Letteratura e salti mortali: ogni tuffo è un salto mortale e racchiude in sé le caratteristiche del pericolo e della bellezza. Mi sembrava una sintesi perfetta di Gardini, per questo suo costeggiare il pericolo e non abbandonare mai un’idea di bellezza.

GIANLUCA BARBERA — Ho voluto scrivere la storia di una dinastia e il mio titolo originale era Dinastia. È così che l’ho venduto al cinema, alla Mompracem dei Manetti Bros. (che ha acquistato i diritti per una serie tv in 10 puntate, ndr). L’editore mi ha proposto il titolo attuale che in principio ho trovato didascalico, ma poi mi è entrato in testa: era immediato. Ho cominciato a scrivere dal mezzo, dalle vicende di Serafino Ferruzzi. I capitoli su Raul sono venuti dopo. E ho deciso di inserire una componente di mistero, la morte di Gardini, che è poi diventata la scena clou che apre il romanzo.

Nessuno di voi ha conosciuto personalmente Raul Gardini. Avete visitato i suoi luoghi, incontrato chi l’ha frequentato? Fatto ricerche d’archivio?

ELENA STANCANELLI — Ho iniziato a pensare a questo libro molti anni fa e a raccogliere materiali in maniera più precisa dal 2016. Prima e durante la scrittura ho frequentato Ravenna, ho intervistato amici e conoscenti. Cino Ricci, Vanni Balestrazzi, anche la famiglia. Ho parlato a lungo con i figli, i quali però hanno deciso di prendere le distanze da qualsiasi racconto sul padre e di restare del tutto fuori dalla storia.

GIANLUCA BARBERA — Ho fatto sopralluoghi a Ravenna e a Venezia, dove vivo. Qui c’è Ca’ Dario, inaccessibile: il palazzo storico fu acquistato da Gardini, il figlio Ivan poi l’ha venduto, è passato di mano più volte. Tutte le persone che l’hanno posseduto sono finite in disgrazia… Non ho voluto parlare con nessuno del libro, temo sempre di smuovere le acque. Per ricostruire gli aspetti su Tangentopoli ho usato gli archivi de «l’Unità» e Radio Radicale, è piena di interviste e materiali. Ho ascoltato le audizioni in tribunale di Arturo Ferruzzi e Carlo Sama. Gli interrogatori di Antonio Di Pietro.

ELENA STANCANELLI — È così, anch’io ho passato giornate, settimane, ad ascoltare questi materiali: sentire la vera voce delle persone è emozionante. Mi sono occupata in particolare del rapporto tra Di Pietro e l’avvocato Giuliano Spazzali nel processo Cusani.

Rispetto agli anni di Mani pulite che idea vi siete fatti di quella stagione?

ELENA STANCANELLI — Sulla vicenda di Tangentopoli si comincia a ragionare adesso, a distanza di trent’anni, a bocce ferme e con un po’ più di calma. Ed è anche la ragione per cui di Gardini si inizia a parlare di più adesso di quando le cose sono accadute. Credo che ogni sospensione delle regole sia pericolosa per la democrazia, anche quando le regole si forzano nella direzione del «bene». Durante il periodo dei grandi arresti e delle detenzioni preventive credo si sia forzato molto. C’era una spinta propulsiva impetuosa e c’era l’idea che si potesse forzare. Ma non ha ottenuto il risultato cercato: non mi pare che abbia portato a estirpare le cattive condotte. Poi io faccio lo scrittore, non il magistrato: non devo giudicare, guardo e racconto.

GIANLUCA BARBERA — Per capire un fenomeno valuto intenzioni e risultati. Il processo per la maxitangente Enimont è stato un fallimento, condanne ridicole e morti in carcere, una cosa gravissima. Certo, la magistratura aveva il dovere di portare avanti l’azione penale. Non sto né di qua né di là, dico solo: che i risultati sono stati molto al di sotto delle aspettative, che diversi magistrati poco dopo hanno cambiato mestiere e che la magistratura doveva sì fare quello che ha fatto, ma forse in altri modi, forse ha ecceduto nei metodi.

Raul Gardini si è sparato a casa sua, a Palazzo Belgioioso a Milano, la mattina del 23 luglio 1993. Per come lo avete conosciuto e avvicinato con il vostro lavoro la sua fine poteva essere diversa?

ELENA STANCANELLI — Nessuno sa davvero che cosa sia accaduto. Stando vicino a questa storia mi sembra che sia la fine naturale. Non immagino che avrebbe potuto affrontare la carcerazione, magari preventiva come quella che aveva portato Gabriele Cagliari a uccidersi pochi giorni prima (l’ex presidente dell’Eni si suicidò in carcere il 20 luglio 1993, ndr). Gardini quella mattina sarebbe dovuto andare a parlare con i giudici: non gli avrebbero messo le manette ma sapeva al 90% che sarebbe stato arrestato. Per come era lui, per come aveva sempre vissuto, per quel suo stare in equilibrio verso il pericolo, mi sembra impossibile che potesse accettare il destino che gli sarebbe stato assegnato.

GIANLUCA BARBERA — Ero all’università quando seppi la notizia della morte, mi sconvolse, non so perché. Forse perché la caduta dei potenti, degli dei, fa sempre molto rumore. Ricordo che la prima associazione fu con Ernest Hemingway, pure suicida. Gardini già da un paio d’anni aveva imboccato una parabola discendente, era stato esautorato dalle sue cariche, aveva fondato un’azienda nuova. Ma uno come lui non ammette la sconfitta. La moglie Idina lo vedeva triste, teso, depresso. Anche senza Tangentopoli credo avrebbe avuto un lento declino. Da qua ad arrivare al suicidio ne corre… Riguardo il modo in cui è morto, lo stesso Di Pietro ha dichiarato più volte che avrebbe potuto salvarlo se lo avesse arrestato la sera prima come era sua intenzione. Non ho il dono della preveggenza, ma di sicuro avrebbe cambiato il corso del processo Enimont: sarebbe stato un testimone-chiave. La cosa più ovvia è che si sia tolto la vita, nonostante ci siano aspetti mai chiariti.

ELENA STANCANELLI — Quella frase di Di Pietro la trovo di una crudeltà infinita. Fa capire quanta poca lucidità e poca razionalità c’è in quell’atteggiamento: in quelle parole manca del tutto un’idea democratica del mondo. Poi c’è il fatto che Gardini fosse un family man, era molto legato alla famiglia, essere stato sbattuto fuori dalla porta l’aveva ferito e indebolito. Mi piacerebbe raccontare la storia di Gardini proprio a partire da quegli ultimi anni, i più belli e strazianti dal punto di vista dell’eroe, del personaggio da romanzo quale era.

GIANLUCA BARBERA — Era un eroe tragico.

ELENA STANCANELLI — Sì. Lasciato solo da tutti ha cercato di comportarsi come niente fosse successo mentre invece tutto era già accaduto.

Con l’eroe Raul Gardini scompare anche un tipo di uomo, di maschio…

ELENA STANCANELLI — Gardini è stato uno degli ultimi rappresentati di quella categoria antropologica che è il maschio novecentesco, cresciuto in un ambiente favorevole, con regole fatte a sua immagine e somiglianza. Quel modo di stare al mondo non c’è più stato né ci sarà più. Le regole sono state ricontrattate, cambieranno ancora di più, dal punto di vista della distribuzione del potere. Quelle sfrontatezza e spudoratezza di stare al centro senza essere messi in discussione non c’è più. Era un modello che aveva in sé tanti aspetti negativi, ma anche un tipo di forza e di ambizione che ora si fa fatica a vedere. In breve, nel Novecento l’essere umano aveva ancora l’idea delle «magnifiche sorti e progressive»: la razionalità, l’intelligenza, il coraggio, l’imprenditoria, il denaro potevano cambiare il mondo e renderlo un posto migliore. Per Gardini era così. Oggi viviamo un’epoca in cui l’essere umano percepisce sé stesso come un danno, una catastrofe: qualsiasi gesto facciamo deturpiamo, sciupiamo, roviniamo il pianeta. Meglio fare poco o non fare nulla, non sprecare. Quell’idea dell’essere umano come spinta che migliora il mondo non c’è più.

GIANLUCA BARBERA — Non ho mai fatto distinzioni tra uomo e donna, piuttosto sono affascinato dall’intelligenza. Se uno dice cose intelligenti, anche se non le condivido rimango incantato: mi accadeva con Gardini. Oggi viviamo un po’ in una dimensione museale, in un mondo dove bisogna aggirarsi badando a non rovinare nulla perché non saremmo più in grado di rifarlo così bene. Ma la storia è diversa: pensiamo alle nostre città, ad esempio, con parti rinascimentali, edifici che ne avevano sostituiti altri di epoche precedenti, forse ancora più preziosi. Nei secoli passati non ci si faceva troppi problemi a tirare giù e poi rifare, non si aveva l’idea che il risultato sarebbe stato peggiore. Al contrario si guardava avanti. Gardini aveva questa visione, questo sguardo avanti, al futuro.

 

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