di Antonio Gnoli
Le sue origini sono bretoni. Radici contadine piantate più nel cielo della fede che nella terra pagana. Un piccolo mondo che ha avuto nel cattolicesimo una forte guida.
«Andavo a messa a Rennes e il vicario della parrocchia dopo la funzione raccoglieva i soldi dei fedeli. Non era la semplice questua, ma ciò che i contadini avevano messo da parte. Il prete doveva conservare i loro magri risparmi e magari riuscire a farli fruttare. Una banca di mutuo soccorso piccola ed efficiente, che oggi è diventata una realtà economica importante». Mentre ricorda Yves Mény sorseggia un bicchiere di vino. C’eravamo conosciuti alcuni anni fa per una innocente e accademica, almeno allora, discussione sul populismo. Mény fu tra i primi ad avvistare il fenomeno: come scienziato della politica ha lavorato in largo anticipo su questi temi, insegnando e dirigendo l’Istituto universitario europeo a Firenze. Dopo la pubblicazione del recente Popolo ma non troppo (edito da il Mulino), Meny ha deciso di occuparsi di miti: «In Francia abbiamo avuto due grandi studiosi come Jean-Pierre Vernant e Marcel Detienne, il cui lavoro sul mito è ancora fonte per me di arricchimento».
Davvero il ricorso al mito può aiutarci?
«È un’esperienza che sopravvive ai numerosi cambiamenti culturali o che tende a risorgere nei momenti di crisi, quando si è culturalmente più deboli. Da qualche anno si è andato affermando il mito del popolo e, corrispondentemente a questo, in maniera speculare, quello del capo. Coloro che si richiamano al popolo in realtà vogliono solo un potere senza contrappesi. Chiamare democrazia tutto questo è pura demagogia, oltre che un grave errore».
Come è nato l’equivoco?
«Dall’indebolimento del sistema democratico. Venuti meno i corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni, istituzioni civili e perfino ecclesiastiche) la domanda democratica è come impazzita. Quando cadde il Muro e a seguire ci fu il crollo del comunismo sovietico, ci fu chi decretò la fine della storia. Fu una pretesa sciocca, un’illusione pensare che avendo vinto il mercato era finita la storia come conflitto. La crisi dei sistemi di rappresentanza nasce in quel momento, sul finire degli anni ottanta, e si è acuita con l’aggravarsi della situazione economica. Il punto è che non abbiamo trovato con cosa sostituire gli effetti di quella crisi.
Salvo ricorrere alla mitologia del popolo».
Il ricorso alla democrazia diretta non è un evento recente.
«Già nell’Atene di Pericle si praticò la democrazia diretta, ma era un fenomeno limitato dal censo.
Quando Rousseau teorizza qualcosa di analogo ha sotto gli occhi l’esperienza dei villaggi svizzeri. Nel momento in cui l’idea si generalizza e la si riconduce alla volontà generale del popolo nasce, come dimostra l’esperienza giacobina, il terrore.
Forme di democrazia diretta furono anche sperimentate con la Comune di Parigi e poi, per andare ad anni più recenti, con il Sessantotto.
Tutte fallimentari, sia quella cruenta del 1870 che quella velleitaria del 1968.
Lei dov’era e che faceva quell’anno?
«Nell’estate del ’68 venni chiamato al servizio militare che svolsi non lontano da casa, a una trentina di chilometri da Rennes. Fu la sola fortuna, per il resto furono 18 mesi terribili, scanditi da una disciplina ottusa e da un senso di inutilità. Praticamente non facevo nulla e in più c’era la frustrazione che essendo già laureato, sposato e con un figlio, mi sembrava una patente ingiustizia dello Stato nei miei confronti avermi arruolato. Fu così che cominciai a guardare con favore al movimento studentesco».
Quali erano i suoi riferimenti culturali di allora?
«Due intellettuali allora molto in voga erano Jean-Paul Sartre e Louis Althusser. Avevano visioni opposte, a cominciare dal modo di leggere Marx. Per quanto mi riguarda non sono mai stati due maestri politicamente credibili. E poi in Bretagna, dove vivevo, l’eco delle loro imprese arrivava attutito. A quel tempo fu importante per me la lettura de La crisi della coscienza europea di Paul Hazard. Quel libro per la prima volta affrontava con grande acutezza il passaggio dall’età dei doveri a quella dei diritti. E mi chiedo se oggi non occorra una nuova inversione di marcia. Come vede il mio Sessantotto fu flebile anche perché la mia non era una famiglia borghese e neppure operaia».
Quali erano le sue radici?
«I miei genitori erano contadini bretoni. Gente semplice. Mio padre voleva che proseguissi il suo lavoro e per lui fu un dolore vedere la mia ostinazione a voler fare altro. Ero l’unico figlio e capisco – o meglio l’ho capito in seguito – quanto fosse importante che io restassi a casa a occuparmi dei campi e delle bestie. Fu mia madre a difendermi e a ripetergli che un’imposizione del genere sarebbe stata la mia condanna. Fu lei a incitarmi allo studio. Ho studiato in una scuola cattolica trascorrendo sette anni in un collegio».
Li ritiene formativi?
«In un certo senso lo sono stati. E come in tutte le scuole vi erano professori mediocri e altri bravi. Alcuni perfino entusiasti del loro mandato pedagogico.
Ricordo un giovane prete che insegnava civiltà greco-romana. Molte delle cose che ho appreso in seguito su quel mondo le devo a lui, al nitore e alla passione che sapeva infondere alle sue lezioni. In seguito feci l’università a Rennes. Sono diventato professore ordinario a 31 anni».
Immagino occupandosi di scienza della politica.
«Sì, anche se nella Francia di allora non esisteva, come in Italia, un insegnamento specifico. La scienza della politica era un’emanazione di Giurisprudenza. Furono Georges Vedel e Maurice Duverger ad accompagnare questa trasformazione».
Duverger era famoso in Italia per il suo libro sui partiti politici.
«I suoi scritti sulle strutture partitiche sono stati importanti per la scienza politica. Con Vedel studiarono fin dal dopoguerra la funzione dei sistemi elettorali, privilegiando quello maggioritario. Ricordo Duverger come un uomo brillante e gran barone universitario».
La personalità più rappresentativa degli studi sulla politica è stato Raymond Aron. Lo ha conosciuto?
»Non bene, ma la sua opera è stata importante per me. In particolare i suoi lavori su Tocqueville hanno indirizzato la mia ricerca sulla democrazia. Ma devo aggiungere che la sua attenzione per Marx e Weber, Machiavelli e Clausewitz e per lo stesso Tucidide restituiscono un pensatore realista, un liberale che seppe denunciare le tirannidi novecentesche.
Gli intellettuali italiani gli preferirono Sartre.
«Ma anche in Francia la sinistra tifava tutta per Sartre. I due furono compagni di università ma ben presto esplose la polemica ideologica e culturale. Anche se alla fine della loro vita si riconciliarono. Chi era meglio?
A differenza di Sartre, Aron appoggiò le proprie analisi sui fatti. Non dava niente per scontato. Anche le migliori intenzioni, disse, possono avere effetti disastrosi. Il suo pluralismo intellettuale ha dovuto fare i conti con il dominio ideologico unilaterale di quegli anni».
La Francia ha vantato la presenza di numerosi maître à penser. Spariti Sartre, Aron, Foucault, Levy-Strauss, Dumezil, Barthes, cosa resta?
«Ben poco. Ma è così ovunque in Europa. Ci sono periodi in cui la creatività, l’intelligenza, la cultura si esaltano fino a diventare il sugello di un’epoca. Di solito accade quando una società entra in crisi. A quel punto grandi artisti e grandi pensatori sembrano uscire dal nulla e trasformarsi in solidi punti di riferimento.
Picchi culturali e artistici difficilmente superabili. È accaduto con il Rinascimento italiano, con la fase che ha preceduto la Rivoluzione Francese e, sempre riguardo alla Francia, sono convinto che la crisi del suo colonialismo abbia prodotto intelligenze critiche straordinarie. Forgiate tra la disfatta di Dien Bien Phu del 1954 e la battaglia di Algeri del 1960».
È in quell’arco di tempo che si consolida la coscienza critica dell’intellettuale francese?
«Che Sartre chiamerà engagement».
Quell’impegno filosofico, politico ed esistenziale aveva trovato un sorprendente avvio con Paul Nizan.
«Percepì prima degli altri il disincanto anticoloniale.
Aden Arabia – pubblicato nel 1931 – fu un veemente attacco alle convenzioni borghesi, ai luoghi comuni della cultura occidentale, all’idea che la giovinezza fosse un’età felice e, sebbene Nizan avrebbe poi intrapreso la militanza comunista, quel libro fu un’esplosione di feconda anarchia».
Nizan aveva alle spalle Rimbaud.
«C’è sempre qualcuno da cui discendiamo».
Tra i suoi punti di riferimento c’è o c’è stata molta presenza italiana. Parla bene la nostra lingua ha insegnato e insegna ancora nelle nostre università.
Come è nata questa relazione?
«La prima volta che venni in Italia fu negli anni Cinquanta. Un prete del collegio dove studiavo ci portò in gita a Torino, poi sul Lago Maggiore e a Venezia. Per me fu come per Paolo sulla via di Damasco. Una folgorazione. Avevo 15 anni e da allora ho sempre cercato di venire nel vostro paese. Poi l’insegnamento: gli anni trascorsi a Firenze nell’Istituto Europeo che ho diretto e Pisa all’Istituto Sant’Anna. Luoghi di straordinaria formazione. Oggi faccio dei corsi alla Luiss».
Cosa vuol dire che le analisi politiche sono quasi sempre di grande o buon livello, mentre la politica come viene praticata è spesso inesorabilmente mediocre.
«Non è che ai tempi di Machiavelli la situazione fosse migliore. C’è sempre stato un fossato tra l’intellettuale o lo studioso che si occupa di politica e il politico che agisce nella società. Oggi quella distanza è molto più evidente, perché più forte è la rottura epocale nella quale ci troviamo. I politici sono come mosche in un bicchiere».
Nel suo ultimo libro “Popolo ma non troppo” lei analizza il tema della rottura. In che modo è cambiata la nostra prospettiva?
«L’ultima grande cesura è stata nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’impero sovietico. La storia ha conosciuto diversi momenti di svolta: 1648 Trattato di Westfalia; 1776 e 1789 le rivoluzioni americana e francese; 1848 rivoluzione sociale in Europa; 1917 rivoluzione bolscevica; il trionfo dei totalitarismi in Europa tra gli anni venti e trenta; l’affermazione bipolare dopo il 1945 di Stati Uniti e Unione Sovietica. Oggi siamo di fronte a una nuova rottura epocale innescata dal capitalismo globalizzato all’interno dei sistemi democratici».
Come è stato possibile?
«La globalizzazione che stiamo vivendo è segnata da rivoluzioni (tecnologiche, economiche, finanziarie, sociali) così potenti da influenzare gli stessi sistemi politici. Da un quarto di secolo le democrazie si sono svuotate proprio quando le si è ritenute insostituibili».
Intende dire che nel momento in cui si assiste al loro trionfo lì è cominciata la loro discesa?
«Quando è venuta meno la minaccia nei suoi confronti sono affiorati i difetti congeniti, la sua debolezza. A quel punto la democrazia si è sottomessa a un partner molto potente che la globalizzazione ha liberato dai suoi vincoli nazionali: il mercato. È da questa considerazione fattuale che occorre ripartire. Sapendo che un nuovo protagonista si è seduto al tavolo e gioca la sua partita».
Chi?
«Internet. Il pifferaio che ha detto a ciascuno di noi: non hai bisogno di intermediari, seguimi e ti renderò ricco e sapiente. Con una potenza di fuoco e una rapidità mai viste sta terremotando il mondo in cui eravamo vissuti. Commercio, giornali, viaggi, saperi tutto è esposto alla sua seduzione, alla sua forza. È come se dicesse a ognuno: la tua opinione – qualunque essa sia brillante, colta, stupida o ignorante, mostruosa o sensata – è uguale a tutte le altre. È questo il panorama desolante in cui è cresciuto il populismo.
Paul Hazard studiò magistralmente il passaggio dall’epoca barocca all’illuminismo. La crisi che lui raccontò condusse alla nascita dell’Europa moderna.
La nostra crisi non sappiamo ancora dove ci condurrà».