La prova è facile. Vai su Google, scrivi Egemonia, cerca in Notizie. Tutti vogliono l’egemonia – o la vogliono sottrarre ad altri, per appropriarsene. L’egemonia è ovunque: la Cina accusa gli Usa di essere ossessionati dall’egemonia; la Cina “amplia la propria sfera di egemonia” in Europa e in Africa; nel motociclismo c’è “l’egemonia di Marc Márquez”, nel calcio quella dei “grandi club”, nel tennis c’era l’egemonia di Federer, quella di Nadal, ora vige quella di Djokovic; in Spagna si parla di “crisi di egemonia della politica”; in Italia di “egemonia della magistratura”; naturalmente, un po’ tutti, citando Gramsci a colazione, parlano di “egemonia culturale”: per alcuni esiste, in mano a ciò che resta della sinistra, per altri è una fola inventata dalla destra. Nella sovversione dei linguaggi, nella perversione del vocabolario, pervaso dall’ovvio, dal caos verbale – spesso indotto, dacché comanda chi sa cosa dice –, egemonia è un termine che resiste agli urti dei millenni, con pazienza implacabile. Per capire le ragioni del suo ‘successo’ Giuseppe Cospito, professore di Storia della filosofia all’Università di Pavia, ha scritto un libro, Egemonia. Da Omero ai Gender Studies (Il Mulino, 2021), che racconta le origini del termine, le sue ragioni, i concetti di cui è stato riempito, nei secoli, i mutamenti di senso che ha subito. “Il termine hegemonia compare per la prima volta nei testi degli storici greci, nei quali ricorre spesso e indica solitamente il ‘predominio’ di una polis sulle altre all’interno di un’alleanza politico-militare”, scrive Cospito. In Aristotele egemonia è termine “connesso all’autorità del comandante sull’esercito nella conduzione della guerra”; nel Vangelo di Luca hegemón è il governatore della Siria, Quirino; nel 1905 Lenin chiama il proletariato alle armi, “egemone nella rivoluzione popolare”, verso la realizzazione della “dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini”. Egemonia è un concetto-camaleonte, che si adatta ai contesti più disparati (e disperati): Gramsci – di cui Cospito è studioso: ha firmato, tra l’altro, una Introduzione a Gramsci nel 2015 – fonda l’idea moderna di egemonia, legando l’egemonia culturale a quella politica (“la filosofia della praxis concepisce la realtà dei rapporti umani di conoscenza come elemento di ‘egemonia’ politica”). Abusato, piegato, volgarizzato, reso pop, svuotato di senso e riempito di molti sensi, sensibile, il termine egemonia, di recente, è stato raffinato dalla sociologa marxista Raewyn Connell, parlando di hegemonic masculinity, “grazie al quale nelle società patriarcali alcune categorie di uomini impongono, attraverso un lavoro su se stessi e sugli altri, il proprio dominio sulle donne, ma anche su altre categorie di uomini, a partire dagli omosessuali”. Rispetto all’egemonia di cui parla Aristotele, a quella discussa da Gramsci, il salto concettuale è notevole, triplo. Per capire qualcosa, abbiamo interpellato il professor Cospito.
Egemonia pare essere un termine malleabile, modulabile a seconda delle situazioni, infine ‘egemonico’. Come mai? Da cosa dipende il suo successo?
Credo che una parte della fortuna del termine derivi proprio da questa sua ‘plasticità’. Si tratta infatti, come ho cercato di mostrare nel libro, di un’espressione fin dall’inizio sfuggente, che è più semplice definire in modo negativo, per contrasto rispetto ad altri termini del lessico politico che invece paiono avere un significato meglio definito. Non è un caso che lo studio più analitico di questa parola, realizzato dal giurista tedesco Heinrich Triepel negli anni Trenta del secolo scorso, finisca per identificare almeno tredici coppie di opposti rispetto alle quali provare a connotare le particolarità dell’egemonia. Tuttavia è possibile riconoscere, in questa polisemicità, una serie di costanti a partire dal nesso fondamentale tra forza e consenso, che rende possibile definire egemonico qualunque forma di rapporto che si fondi su un equilibrio più o meno stabile tra queste due componenti. Che si parli dell’egemonia di Atene nel V secolo a.C o degli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento, è indubbio che questa non sia stata raggiunta e mantenuta solo grazie a una supremazia militare ed economica, ma anche per via della superiorità – poco importa se effettiva o solo ritenuta tale – dei rispettivi apparati politico-ideologici.
Gramsci parla di ‘egemonia culturale’ come aspetto dell’egemonia politica: ha ancora valore quella riflessione? In che cosa Gramsci è stato ‘rivoluzionario’ nel teorizzare l’egemonia?
Il tema dell’egemonia culturale costituisce indubbiamente una delle ragioni del successo soprattutto internazionale di Gramsci negli ultimi decenni e, nello stesso tempo, uno degli aspetti più fraintesi del suo pensiero. Le due questioni sono connesse, nella misura in cui separare, come hanno fatto molti interpreti, l’egemonia culturale da quella politica e, soprattutto, economica, ha permesso di leggere Gramsci in chiave post-marxista, se non addirittura anti-marxista, facilitandone la diffusione in ambienti, a partire da quello statunitense, nei quali l’ideologia comunista era guardata con grande sospetto. Il prezzo di questa operazione, che ha portato a risultati tutt’altro che trascurabili (a partire dai cosiddetti Cultural Studies) è stata però la perdita di quell’unità tra economia, politica e ideologia che costituisce forse l’apporto più originale – e in questo sì, rivoluzionario – e attuale della riflessione gramsciana sull’egemonia rispetto sia alla tradizione bolscevica, che aveva messo l’accento prevalentemente sulla dimensione politico-militare, sia a quella liberale, che invece si concentra sull’aspetto consensuale dei rapporti di potere.
Che legame esiste tra egemonia e dittatura, tra egemonia e potere?
È un legame complesso e complicato dal fatto che anche il termine dittatura è stato impiegato storicamente per descrivere forme politiche molto differenti tra loro. Nell’antica Roma, per esempio, si trattava di una carica istituzionalizzata, limitata nel tempo e ben definita negli scopi, ma soprattutto volta a difendere le istituzioni repubblicane dai tentativi di restaurazione monarchica degli oligarchi, e quindi generalmente esercitata in favore e con il consenso dei ceti popolari. Ed è a questa forma di dittatura, ben diversa da quelle che molte nazioni hanno vissuto in tempi più recenti (e alcune vivono tuttora), che a partire dalla Rivoluzione francese si sono ispirati una serie di leader e teorici politici, dai giacobini allo stesso Marx, quando parla di “dittatura del proletariato” come di una forma transitoria di governo volta a promuovere gli interessi della stragrande maggioranza del popolo. Che quest’ultima formula abbia poi avuto, nello stato sorto dalla Rivoluzione d’Ottobre e nei regimi satelliti dell’Est europeo dopo la Seconda guerra mondiale, una concretizzazione ben più autoritaria, nulla toglie al suo carattere originariamente connesso ad aspetti importanti dell’egemonia. Quanto al rapporto tra egemonia e potere, credo che la sua migliore definizione si trovi ancora nel Principe di Machiavelli che pure, come i suoi contemporanei, non conosce il termine “egemonia” (caduto in oblio con la fine della Grecia classica e ‘riscoperto’ solo all’inizio dell’Ottocento), ma che ha ben presente la natura complessa e ambigua del potere, che descrive con la celebre immagine del Centauro, mezza fiera e mezzo uomo, a indicare la necessità per il politico di dosare opportunamente forza e consenso o, se vogliamo ragionare nei termini di poco prima, dittatura ed egemonia, appunto.
Oggi il senso della parola egemonia si è dilatato a dimensioni extrapolitiche (ma con esiti sociali importanti): si parla, ad esempio, di hegemonic masculinity. Che cosa significa? Si tratta di un abuso concettuale o di una possibilità concessa da un termine polimorfico?
“Hegemonic masculinity” è l’espressione coniata dalla sociologa australiana Raewyn Connell per descrivere il modo in cui, nelle società tradizionali, patriarcali, si impongono come dominanti una serie di caratteristiche e comportamenti considerati ‘maschili’, rispetto ai quali gli uomini vengono invitati (e se nel caso costretti) a omologarsi, con effetti discriminatori non solo nei confronti delle donne ma di tutti coloro che appaiono ‘diversi’ rispetto a questi standard, a partire ovviamente dagli omosessuali. La sua natura egemonica consisterebbe nella capacità di imporsi sia all’interno dei gruppi dominanti, quelli che forse oggi definiremmo ‘maschi alfa’, sia presso coloro che ne vengono discriminati, presentando come naturali e quindi ‘giuste’, caratteristiche che sarebbero invece socialmente e storicamente determinate. Quello di mascolinità egemonica è un concetto molto discusso e controverso anche all’interno dei cosiddetti Gender Studies; ho voluto chiudere il libro con un accenno al riguardo proprio per mostrare con un esempio in qualche modo estremo le grandi potenzialità che ancor oggi contiene un termine come egemonia che pure ha oltre 2500 anni di storia…
A cosa possiamo, indubbiamente, oggi, applicare il termine ‘egemonia’? Terminata l’egemonia degli Stati, dei partiti, della chiesa, del proletariato… Chi esercita oggi una egemonia?
Ricollegandomi a quanto appena detto, potrei rispondere continuando a elencare i numerosissimi campi nei quali oggi molti studiosi utilizzano il termine egemonia come un fondamentale strumento analitico, dalla linguistica all’antropologia, dalla teoria del discorso alla geografia, dalla pedagogia alla letteratura, dalla storia della scienza allo studio delle religioni, dall’economia politica alle relazioni internazionali… Nello stesso tempo, proprio l’indebolimento delle grandi istituzioni politico-sociali della modernità, dallo stato-nazione al partito-classe, nonché in ambito internazionale il venir meno del bipolarismo che ha dominato buona parte del ‘secolo breve’, ha indotto alcuni studiosi ad affermare che nel mondo di oggi non ci sia più spazio per un’egemonia intesa nel senso tradizionale del termine, statuale e/o sociale, per cui vivremmo in una situazione post-egemonica. Come sempre è molto difficile analizzare i processi in atto e soprattutto leggerli con categorie analitiche sorte in epoche e contesti differenti, e pertanto da storico (della filosofia) sarei tentato per il momento di sospendere il giudizio; non mi sento tuttavia di escludere che l’attuale momento di crisi e frammentazione, che vede l’emergere di particolarismi di ogni genere, non possa portare, in futuro, all’affermarsi di nuove costruzioni egemoniche, magari su base sovranazionale. E del resto, se mi si consente di chiudere con un riferimento all’oggi, la pandemia che ha colpito il mondo intero a partire dal febbraio 2020 non ha dimostrato in maniera inequivocabile da un lato la natura estremamente permeabile delle frontiere e dall’altro l’inadeguatezza della dimensione nazionale (per non dire di quella regionale o locale) per affrontare le sfide di un mondo sempre più globalizzato?