Patterson, che co-firma la sceneggiatura sotto lo pseudonimo di James Montague, ha partorito l’idea durante il liceo, quando faceva il proiezionista e metteva su carta potenziali soggetti: “1950s black and white, New Mexico, Ufo landing”.
Protagonisti sono due adolescenti: il dj della radio locale Wotw (acronimo smaccato di War of the Worlds…) Everett Sloan (Jake Horowitz, metà fighetto, metà nerd, perfetto) e la centralinista Fay Crocker (Sierra McCormick, giusta). Il direttore della fotografia cileno e figlio d’arte Miguel Ioann Littin Menz ne illumina stupendamente la notte nella finzionale cittadina di Cayuga, New Mexico: tutti o quasi i 492 abitanti sono assorbiti da una partita di basket a scuola, non Fay ed Everett che tra switchboard e radio si imbattono in un segnale acustico misterioso.
Un ascoltatore, tale Billy (Bruce Davis), lo ricollega al suo passato militare e top secret, e l’origine aliena è corroborata da una concittadina forse stordita o forse no, Mabel Blanche (Gail Cronauer): i nostri indagano, tallonati – o mollati – da piani non sequenza, ma fascinosamente consequenziali.
Il voltaggio è poetico, il viaggio al termine della notte umanissimo, più adolescente che adolescenziale, più ultraterreno che extraterrestre. E la matrice cinefila, derivativa però smarcata, debitrice però saputella: Ai confini della realtà – il film è attribuito a uno show tv che scopiazza proprio Twlight Zone – trova il primo Stephen Soderbergh, Michael Mann si mischia con John Sayles, se vi piacciono i paragoni facili potete tirar fuori gli Incontri ravvicinati di Steven Spileberg, J.J. Abrams e Matt Reeves, mentre Patterson annovera Tutti gli uomini del presidente e Richard Linklater.
Eppure, l’opera prima, girata in tre settimane e costata appena 700 mila dollari, non fa del visibile, dunque del già visto, il suo centro: la dimensione acustica, dalla radio al centralino al registratore portatile, è preminente, e arriverà più volte lo schermo nero a ricordarcelo.
La natura sci-fi, il correlativo oggettivo low-fi, è in aperta e singolar tenzone con la visione totale, totalizzante e totalitaria del cinema, di molto cinema e non solo fantascientifico, oggi: qui si sente, presente e, al più, dissente, l’occhio vuole la sua parte, ma l’orecchio può, di più. Per questo quel che vediamo nel finale ce lo saremmo volentieri risparmiato: per definizione, l’immensità (vast) tracima lo sguardo. Almeno, quello umano. Da vedere, e ancor più sentire, nella vastità della notte.