1925-2020 SCOMPARSO a 95 anni L’attivista che fu voce letteraria del nicaragua
Addio Ernesto Cardenal
di Roberto Galaverni
È molto difficile sottrarre la poesia di padre Ernesto Cardenal al drammatico contesto storico-politico in cui è cresciuta e ha raggiunto la maturità. Eppure è proprio questo che il poeta nicaraguense — scomparso domenica primo marzo a Managua a 95 anni — augurava ai propri versi: una vita al di là dell’ingiustizia e del dolore, una durata che superasse il buio dei tempi e delle cose, una voce non coincidente con il male di cui pure a tutti gli effetti intendeva farsi carico.
E così siamo già nel cuore del suo sistema poetico. Il grosso della sua opera, o comunque il suo nucleo più incandescente è infatti estremamente reattivo nei confronti della particolare situazione del Nicaragua tra anni Cinquanta e Ottanta: la dittatura della famiglia Somoza, la rivoluzione sandinista in cui ebbe una parte molto attiva (fu anche ministro della Cultura per parecchi anni), la presa del potere nel 1979 da parte del Fronte sandinista di liberazione nazionale, ma poi anche gli eventi che ne seguirono, il governo di Daniel Ortega e tant’altro. Eppure si ha sempre l’impressione che al fondo di questo interesse immediato, frontale e in ogni caso decisivo per lo stato presente delle cose (spesso e volentieri al negativo), scorrano una complicità con la vita, un sentimento di partecipazione alla natura e della concordia tra gli uomini che dell’impegno poetico rappresentano non tanto l’altro versante ma la giustificazione.
Un epigramma tra i più noti di Cardenal, scritto quando ancora i suoi versi erano confinati in un’esistenza clandestina, mostra come il poeta avesse avuto per tempo le idee ben chiare su questo punto fondamentale: «Le nostre poesie non si possono ancora pubblicare. / Circolano di mano in mano, manoscritte, / o copiate a ciclostile. Ma un giorno / si dimenticherà il nome del dittatore / contro il quale furono scritte, / e continueranno ad essere lette» (la traduzione, qui e più avanti, è di Antonio Melis). Non si tratta affatto, dunque, di un elemento irrisolto o di una contraddizione, bensì del campo di tensioni di cui le sue poesie si nutrono e di cui a sua volta il lettore dovrebbe in qualche modo farsi carico. Questa poesia è scritta per tempi d’emergenza straordinaria, sia storico-politica sia sociale («Davvero, vivo in tempi bui!», come già aveva scritto Bertolt Brecht in A coloro che verranno), ma in nome di qualcosa — chiamiamolo pure una benevolenza, un amore per l’uomo e le creature — che al presente appare vilipeso e conculcato. In ogni caso, la promessa della sua poesia non intende fermarsi al tempo per cui pure è stata scritta.
Il valore delle parole
La sua poesia è scritta per tempi d’emergenza politica e sociale ma non intende fermarsi ad essi
Questo cristiano fornito di un’incrollabile fede antropologica, questo scrittore nato per essere un poeta della lode e cantare il proprio amore per Dio, per gli uomini e per la stessa creazione, è stato anzitutto anche se non esclusivamente un poeta storicamente impegnato. Ha esercitato infatti la poesia come uno «strumento di liberazione» e di riscatto sociale, puntando tutto su una specie di pronto intervento poetico. La parola di Cardenal vuol essere infatti diretta, immediata, funzionale, e proprio per questo non convenzionale, antiletteraria. Un linguaggio semplice, comune, chiaro ed efficace, insomma, tutto inteso a condurre la poesia al di fuori dalla stanza separata della letteratura. Assieme a quello di alcuni compagni di strada il suo orientamento poetico fu chiamato non a caso, anche se con una definizione non troppo felice, exteriorismo. In realtà, si trattava di una poesia che intendeva essere il più possibile concreta e diretta.
«L’uomo è stato creato per l’amore; soltanto per amare il suo creatore. E tutto il tempo che non impiega in questo amore, è tempo perduto», ha detto in un’occasione con un linguaggio molto vicino a quello dei mistici. Eppure il suo primo libro di riferimento è costituito da acuminatissimi epigrammi contro la dittatura (appunto Epigrammi, del 1961), la privazione della libertà, gli abusi del potere, la violenza, le disparità sociali; ed è dunque un libro contro, un libro d’opposizione. Ma è vero che anche in questo caso bisognerà riconoscere soprattutto il rapporto di nutrimento reciproco tra le due facce della medaglia. Non si è certo trattato di un’acquisizione pacifica e senza conseguenze, ma in ogni caso in Cardenal fede religiosa e lotta politica, ispirazione creaturale e impegno, proprio come cattolicesimo e marxismo vanno di pari passo. Il poeta stesso non si è stancato di ripeterlo, del resto.
«Le dittature entrano anche nella lingua», ha detto in un’altra occasione. Ed è vero che, da poeta qual era, Cardenal non poteva non trovare nella poesia una specie di punto d’osservazione intensificato delle ricadute linguistiche dei comportamenti umani. E infatti: «Fortunato l’uomo che non legge gli annunci pubblicitari / e non ascolta le loro radio / e non crede nei loro slogan. // Sarà come un albero piantato accanto a una fonte». Così, dal punto di vista della poesia si può dire che la sua battaglia sia stata duplice: contro gli slogan e i luoghi comuni imposti dalle semplificazioni dell’autoritarismo, ma anche, più sottilmente, contro l’enfasi, la retorica, la vena celebrativa, l’epica a buon mercato. Il «monaco rivoluzionario», come lo ha definito David Maria Turoldo, che tradusse per intero uno dei suoi libri più apprezzati (Quetzalcoatl. Il serpente piumato), amava Walt Whitman e Ezra Pound, i cantori dell’uomo in sintonia col creato, anche se, per un lungo tratto della sua vicenda di poesia, lui stesso quel cantore ha potuto esserlo solo in modo rovesciato.