Il 3 novembre di venti anni fa scomparve Lucio Colletti, uno dei protagonisti della cultura filosofico-politica italiana della seconda metà del Novecento, e una delle personalità più discusse di quegli anni difficili e tormentati. La sua storia intellettuale fu contrassegnata da appassionate e drammatiche “svolte” o “fratture”, nelle quali egli ebbe la forza di mettere in discussione il proprio precedente patrimonio ideale, e di avviare una fase interamente nuova. Credo che questo sia stato l’aspetto più interessante e originale della personalità del filosofo romano.
La prima “svolta” fu la sua adesione al marxismo, pochi anni dopo la laurea in filosofia (che aveva conseguito con una tesi fortemente critica sulla logica di Benedetto Croce). Dopo un breve periodo “azionista”, entrò nel Partito comunista, tra il 1949 e il 1950, in piena Guerra fredda, quando egli aveva 25-26 anni (era nato nel 1924). La sua svolta in direzione di Marx e del comunismo ebbe la sua molla (come accadde a tanti intellettuali in quel periodo, all’indomani della Seconda guerra mondiale) nel messaggio salvifico del marxismo: la nascita di una società interamente nuova e unificata.
Dopo le rivoluzioni popolari in Polonia (Poznan) e in Ungheria nel 1956, contro i regimi comunisti, egli non fu tra i numerosissimi intellettuali che abbandonarono il Pci. Beninteso, egli visse con grande passione e drammaticità quegli avvenimenti, e anzi fu tra gli estensori della “lettera dei 101” (fra i quali figuravano parecchie delle personalità più prestigiose che avevano aderito al Pci: da Natalino Sapegno a Carlo Muscetta, da Luciano Cafagna ad Alberto Caracciolo, da Gastone Manacorda a Paolo Spriano, per fare solo alcuni nomi). In quel documento – che fu inviato alla Direzione del Partito comunista – si denunciava lo stalinismo che dominava nell’Urss e nei paesi satelliti, la dura coercizione sulle masse popolari, la soppressione delle libertà civili e politiche, l’instaurazione di rapporti fra gli stati socialisti basati sull’ingerenza e sulla subordinazione; e si denunciava altresì che il Pci, fino a quel momento, non aveva condannato lo stalinismo, e ne aveva minimizzato i crimini, definendoli “errori”.
E tuttavia, come si è detto, Colletti nel 1956 non uscì dal partito: restava intatta la sua fede nel comunismo, quale delineato da Marx, di cui lo stalinismo era non una conseguenza (pensava il filosofo romano) bensì una spaventosa negazione.
Sennonché, il marxismo di Colletti era un marxismo eterodosso, che lo avrebbe portato a confliggere sempre più con il Pci (dal quale uscì nel 1964). Da un lato, infatti, sul piano filosofico-teorico, egli (vicino in ciò a Galvano Della Volpe) rifiutava il “materialismo dialettico” (che era il marxismo ufficiale di tutti i partiti comunisti), con la sua dialettica della natura, ed esigeva un ritorno all’opera di Marx, che era essenzialmente (così pensava allora il filosofo romano) una analisi sociologico-scientifica della società capitalistica; dall’altro lato, sul piano politico, rivendicava l’“autogoverno dei produttori”, cioè la democrazia consiliare o diretta, ma con la salvaguardia di tutte le libertà civili e politiche.
Il marxismo di Colletti assumeva così una dimensione libertaria, e al tempo stesso veniva a collocarsi alla sinistra del Pci, di cui criticava la difesa della Costituzione italiana, che era – egli diceva polemicamente – una Costituzione democratico-parlamentare borghese.
Erano posizioni, queste di Colletti, destinate a entrare in crisi. Sotto le dure repliche della storia – l’impossibilità di qualunque rinnovamento del “socialismo reale”, e al tempo stesso la vitalità e la produttività sempre più elevata del capitalismo – il filosofo romano, a partire dalla sua celebre Intervista politico-filosofica del 1974, incominciò a mettere in discussione l’opera di Marx, che (seguendo le indicazioni di Hans Kelsen, ma approfondendole e rielaborandole attraverso una eccezionale conoscenza del pensiero kantiano) gli parve fondata sulla confusione (già centrale in Hegel) fra “opposizione reale” e “contraddizione”. Il conflitto sociale fra operai e capitalisti era appunto un conflitto, cioè una opposizione (di interessi), ma non era una contraddizione, e non postulava affatto il proprio superamento e la propria soppressione.
Quanto alle libertà civili e politiche, Colletti finì con l’accettare l’obiezione formidabile che gli rivolse Norberto Bobbio nei suoi famosi saggi apparsi nel 1975 sulla rivista socialista “Mondoperaio”. “Per salvare capra e cavoli – scrisse Bobbio – Colletti sostiene che altro è il parlamentarismo di cui il futuro stato socialista potrebbe fare a meno, altre sono le libertà civili e politiche, come la libertà di stampa e il diritto di sciopero, senza le quali non ci può essere, a suo giudizio, socialismo. (…) Mi domando come Colletti creda veramente possano essere difese e conservate le libertà cui tiene senza un organo centrale in cui siano rappresentate le varie parti che compongono la società civile e in cui la discussione e le deliberazioni che ne seguono siano rette dalle regole del gioco democratico”. Accettando pienamente questa obiezione, Colletti era ormai fuori del marxismo e sempre più vicino al pensiero liberale. Ricevette perciò molti attacchi dai suoi antichi compagni di fede, e anche delle vere e proprie irrisioni (Mario Tronti, per esempio, affermò che la cosiddetta “crisi del marxismo” era “una sceneggiata”). Ma egli procedette tranquillamente per la propria strada, incurante delle scomuniche e degli strepiti, come sempre aveva fatto in passato.