Un padiglione diffuso costituito da dieci cappelle progettate da altrettanti architetti, realizzate in materiali diversi, acciaio, legno, ceramica, calcestruzzo sottile e armato, ferro, senza un modello a cui riferirsi. Non c’è un modulo da seguire, gli unici segni comuni per tutte sono l’altare e l’ambone, che significano la Cena e la Parola. Le cappelle in genere si trovano all’interno di grandi chiese e basiliche, sono pochissime quelle isolate e comunque vengono edificate per un motivo, a ricordo di qualcuno, di un avvenimento, nei Camposanti. Sono cappelle immerse nel bosco dell’Isola di San Giorgio Maggiore, un bosco che fino agli anni Sessanta non esisteva e in cui ci si muove su mezzi elettrici a tre ruote forniti dalla Piaggio. L’ispirazione al curatore professor Francesco Dal Co è venuta dalla “cappella nel bosco” costruita nel 1920 dall’architetto Gunnar Asplund nel Cimitero di Stoccolma. E così prima ancora di inoltrarsi nel bosco, per rendere partecipe il pubblico delle ragioni della scelta, in uno spazio apposito sono presentati i disegni e il plastico della cappella che Asplund definì come un luogo d’incontro, di orientamento, di meditazione. Il bosco dunque diventa l’evocazione del percorso labirintico della vita, in cui perdersi e ritrovarsi, un peregrinare dell’uomo in attesa dell’incontro. E anche il numero delle cappelle, dieci, è quasi un decalogo. E’ questo il tema proposto a dieci architetti di fama internazionale di differenti fedi e tradizioni provenienti da tutto il mondo. Da Norman Foster (Gran Bretagna) che preso dal progetto è andato più volte a Venezia agli altri, Javier Corvalan (Paraguay), Ricardo Flores e Eva Prats (Spagna), Terunobu Fujimori (Giappone), Sean Godsell (Australia), Carla Juacaba (Brasile), Andrew Berman (Usa), Smilian Radic (Cile), Eduardo Souto De Moura (Portogallo) e Francesco Cellini unico italiano.
Quanto ai costi Dal Co parla di un budget limitatissimo coperto da tanti sponsor, meglio ancora dire mecenati. Per quando lo riguarda si è rivolto direttamente alle imprese che lavorano quei materiali. Sono loro ad aver costruito le cappelle come sanno fare, traendone vantaggi a livello di visibilità internazionale. Che fine faranno? Rimarranno a Venezia nel bosco o saranno smontate per essere utilizzate altrove? Per ora non si sa. Una è già stata richiesta dalla Polonia.
A presentare l’iniziativa in Sala Stampa Vaticana che vede la Santa Sede per la prima volta presente alla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia il cardinale Gianfranco Ravasi presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e Commissario del Padiglione “Vatican Chapels” , il presidente della Biennale Paolo Baratta e il professor Dal Co che ha curato tutta l’operazione. Che s’inserisce nella storia della dominante, dice il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, plaudendo all’iniziativa. “Il percorso delle cappelle rimanda a Venezia una città che vive in un equilibrio virtuoso e fragilissimo”. E riconosce che c’è stato rispetto dei materiali.
La Santa Sede per la prima volta dunque ha un padiglione alla Biennale Architettura 2018 che ha come tema “Freespace”, spazio libero, dopo aver rotto il ghiaccio alla Biennale Arte nel 2015 e proseguito nel 2017. Felice dell’adesione di un soggetto nuovo il Presidente della Biennale Paolo Baratta. L’architettura, sottolinea, è la più politica delle arti, uno strumento di organizzazione della società civile, ovvero l’arte della polis che configura lo spazio pubblico. Che non è materia di scambio. Lo promuove un’istituzione pubblica o un privato, come un dono. Anche il privato più egoista quando realizza qualcosa lo fa per sé ma è he per la città. “L’architettura realizza l’io e il noi, la comunità”, precisa Baratta. E la Santa Sede ha una storia straordinaria d’interventi pubblici.
Perché questa idea? Perché la prima volta? chiede qualcuno al cardinal Ravasi. Il motivo affonda le sue radici nella storia, risponde. La chiesa cattolica nella sua universalità approda in laguna per la Biennale, un appuntamento prestigioso del moderno in architettura, cercando di ricucire come è avvenuto con la partecipazione del Vaticano alla Biennale Arte, una frattura fra religione e arte che si è consumata a partire dal secolo scorso. “Per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia”, diceva Mar Chagall. Che William Blake non esitava a definire il “grande codice della cultura occidentale”. Dopo essere state a lungo sorelle, le loro strade si sono divaricate, l’arte è diventata autoreferenziale, mentre la Chiesa si è rivolta esclusivamente alla speculazione, credendo di non aver bisogno di segni e metafore, non tenendo in conto il grande repertorio simbolico. Un allontanamento che si è riverberato in negativo sulla creazione di edifici sacri modesti, e privi di spiritualità. L’inversione di tendenza avviene con Paolo VI nel ’64. “Bisogna ristabilire l’amicizia fra la chiesa e gli artisti”, dice il papa agli artisti che ha invitato in Cappella Sistina. A seguire la Lettera di Giovanni Paolo II nel ’99, l’incontro di Benedetto XVI nel 2009. Lo stesso è avvenuto con la musica, che sta molto a cuore al cardinal Ravasi. Eppure fu una rivoluzione anche passare dal canto gregoriano a Palestrina, da una voce sola a tante voci.
La partecipazione della Chiesa alla Biennale Architettura avviene, ricorda il cardinal Ravasi, sotto il pontificato di papa Francesco che con la “Evangelii gaudium” ha voluto rinnovare “la traiettoria classica del cristianesimo, la cosiddetta “via pulchritudinis”, cioè la bellezza come strada religiosa, seguendo sant’Agostino per il quale “noi non amiamo se non ciò che è bello”. C’è la ricchezza del passato, ma per trasmettere la fede oggi servono anche le molteplici espressioni del presente, dice il papa. “Bisogna avere il coraggio di trovare nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola”.
Freespace XVI Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia – Giardini, Arsenale, centro storico, Isola di San Giorgio – Dal 26 maggio al 25 novembre 2018.