Con un prodigioso salto nel tempo, una delle band più significative degli anni ’70 è tornata tra noi e si è esibita al teatro Nazionale di Milano. Una bella rimpatriata
di Eddi Berni
La macchina del tempo dei Van Der Graaf Generator alla fine è riatterrata a Milano dopo due anni di rinvii causa covid. La band di Peter Hammill, Guy Evans e Hugh Banton ha chiuso il suo lungo tour italiano lunedì 9 maggio 2022 al Teatro Nazionale in modalità tutto esaurito, con un pubblico di età media alta (gli anta sopra a tutti), ma ancora innamorato delle flussi di coscienza del gruppo.
Stoccolma 27 ottobre 2021
Ma chi sono i Van Der Graaf Generator? Sono una band progressive degli anni ’70 che ha composto e suonato alcuni dei pezzi più complessi e tormentati del periodo. Guidati dalla voce e dalla personalità del cantante Peter Hammill, hanno avuto un periodo di successo fra il 1970 e il’ 72 con buone vendite anche in Italia, da sempre paese amante del grande prog inglese. Poi tra scioglimenti e ricomposizioni hanno fatto tanta musica (con meno successo, ma comunque di buona qualità) fino ai giorni nostri.
Il concerto è stato all’altezza delle aspettative, nonostante i nostri eroi abbiano passato i settanta da qualche tempo. Peter Hammill è magro come un giunco vestito di bianco, ma riesce ancora a catturare l’anima di chi lo ascolta con la sua voce (sempre bella, anche se ovviamente diversa da qualche decennio fa) e con le sue composizioni, spesso delle suites, che raccontano l’animo umano e le sue contraddizioni.
I Van Der Graaf Generator mi sono sempre sembrati un gruppo molto importante perché li ho sempre trovati coscienti della loro “missione”: raccontano il profondo e non cedono a nessun compromesso. Sono come quegli amici seri, che ascolti volentieri quando hai bisogno di capire qualcosa di te o del mondo. E al Nazionale hanno dimostrato di essere ancora così, rigorosi nella loro energia intatta e che chiede impegno e attenzione.
E quindi la sensazione fin dalle prime note è quella di assistere ad una performance artistica vera e propria, ma fatta solo e soltanto di musica. I Van Der Graaf non concedono nulla o quasi alla nostalgia, e infatti in scaletta ci saranno solo i due pezzi finali legati ai primi mitici LP. E tanto per non smentirsi, sono solo in tre sul palco, ovvero tastiere, batteria e pianoforte. Ogni tanto Hammill molla il piano e prende la chitarra elettrica. Non c’è il basso (non c’è mai stato un bassista nella band, come per i Doors) e non c’è più il sax, da quando David Jackson (quarto membro della band) ha litigato con Peter Hammill e se n’è andato.
Il concerto parte con Interference patterns, pezzo dalle tastiere ossessive tratto da Trisector, album del 2008 e primo senza David Jackson in formazione. La scaletta prosegue con pezzi relativamente recenti e intorno a loro c’è solo silenzio e attenzione. La band ha sempre avuto un seguito di culto e nonostante tutti siano venuti ad ascoltare le vecchie magie, il rispetto per quello che suonano i Van Der Graaf è totale.
Peter Hammill è evidentemente un po’ stanco, a 74 anni reggere sette concerti in nove giorni non deve essere facile, ma non molla di un centimetro la presa facendo anche qualche chiacchiera in italiano. Hammill frequenta il nostro Paese da tempo per lavoro e per vacanza, e qualche anno fa ha ricevuto un premio Tenco alla carriera, grazie anche ad un album solista (In translation), in cui reinterpretava, tra le altre, canzoni di Tenco, De Andrè e Piero Ciampi.
Guy Evans, il batterista, è invece preciso e puntuale come pochi. Bravissimo a seguire i passaggi in controtempo dei suoi compagni di viaggio, li guarda fissi per capire dove vogliono andare con voce e tastiere e li accompagna perfettamente con la sua aria da Shrek del ritmo (anche la maglietta verde aiuta a immaginarlo come un orco batterista bravissimo, buonissimo e inquietante).
Hugh Banton è invece il re delle tastiere. Non immaginatevi un muro di moog e amplificatori però, anche i Van Der Graaf si sono aggiornati e Hugh suona con totale understatement una semplice tastiera con i risvolti in legno, probabilmente costruita da sé stesso visto che nei periodi in cui la band non era in attività costruiva organi da chiesa elettronici in Inghilterra. Anche lui preciso e attento, è la vera anima musicale della band e molte delle magnifiche ossessioni dei Van Der Graaf passano dal cervello e dalle mani di questo apparentemente tranquillo ingegnere.
Ma è evidente che la tranquillità dei tre è solo apparente: il concerto è pieno di brani che sono dei veri e propri flussi di coscienza in musica, come se i VDGG usassero la musica come sistema per mostrare le anime “scoperte”, quasi a raccontare che dentro ciascuno di loro (e di noi) ci sono mille tormenti e pensieri. E la voce di Peter Hammill dà corpo a questi demoni, passando con stile dal sussurro all’urlo di chi deve gridare al mondo le sue paure e il suo bisogno di aiuto.
Dopo pezzi relativamente recenti come Over the hill e Alfa Berlina (con sirene e sgommamenti registrati dedicati ad una Alfa Romeo) il concerto volge al termine con pezzi amati come Room 1210 per chiudere poi con due dei capolavori della band: Man- Erg e il bis di Refugees, con tutto il teatro a tributare un omaggio totale a questi tre eroi del progressive.
Refugees 1972
Se avete voglia ascoltatevi questi tre album: The Least We Can Do Is Wave to Each Other, H to He, Who Am the Only One del 1970 e Pawn Hearts del 1971. L’incanto è intatto, e farete un viaggio nell’anima di una band che merita di essere riascoltata, riscoperta e riamata.