Dopoguerra Un poeta che non lasciò la terra natale ripercorre la sua odisseain un testo edito da Ronzani. Subì le peggiori angherie senza perdere la dignità
di Claudio Magris
«La povera Italia è tanto distratta»: il dramma istriano e la repressione jugoslava raccontati da Ligio Zanini
Mi vegno da Pola, /Son qua pa’ un momento, / Signore e Signori, / No feme parlar! /Gò perso la barca, / I povari Inglesi / Ghe n’à cussì poche… / La barca go dà. / […] Gò perso la casa / i poveri s’ciavi / no ‘i gera in tel suo… / La casa gò dà. / […] Gò perso i me morti. / La povara Italia / xe tanto distrata… / I morti gò dà.
A parlare è un pescatore, profugo da Pola. Una poesia di Giacomo Noventa, uno dei grandi del Novecento e in disparte nel mondo delle lettere. Volontario nella Guerra del 1915-18, esule antifascista a Parigi e critico dell’antifascismo di maniera quando è divenuto retorica, interprete originale della crisi politica, filosofica, culturale e religiosa che stava e sta scardinando il fondamento della civiltà europea, Noventa scrive talora «in dialeto» e talora, e più spesso, in italiano. I poeti non fanno quello che vogliono ma quello che devono: «Dante e Petrarca ga pur scrito in toscan». Marin, che scrive le sue poesie in gradese, distingueva la poesia dialettale, espressione immediatamente sentimentale, pre-poetica, dalla poesia in dialetto, una lingua che può dire l’universale come le altre.
L’esodo dall’Istria, Fiume e altre città e isole dalmate è, come quello del popolo ebraico dall’Egitto, dolorosa perdita, traversata del deserto e approdo a una Storia più drammatica e più grande. Le genti che lasciano la terra rossa istriana, portandosi dietro masserizie e ricordi, incontrano non solo disagi e difficoltà ma pure incomprensione e ostilità. Nell’Italia di quegli anni la concorrenza è spesso dura anche per un pezzo di pane; c’è inoltre talora pure un rifiuto ideologico, l’idea che chi lasciava la Jugoslavia comunista di Tito era presumibilmente fascista o poco meno. Certamente la discriminazione nei confronti degli slavi, iniziata già prima del fascismo, ha avuto il suo ruolo e la sua responsabilità in questo dramma di confine.
Dall’esodo è nata pure una notevolissima letteratura — Fulvio Tomizza, Enzo Bettiza, Marisa Madieri, Nelida Milani, Anna Maria Mori, Guido Miglia e molti altri — che, ripercorrendo quell’odissea senza ammorbidire il dolore e l’ingiustizia, ha sottolineato la crescita spirituale che può nascere ed è anche nata, pur fra mille difficoltà, dal sentimento di appartenere a un’identità più complessa, di avere la possibilità di una marcia in più, come ha scritto l’autrice di uno dei grandi libri sull’esodo. Un’apertura spirituale che può essere anche dura scuola di vita, che non arretra dinanzi alle difficoltà di costruire una nuova esistenza, diversa da quella che si è stati costretti a perdere, ma che si eredita spiritualmente e si continua a portare in sé.
C’è un grande libro, ripubblicato di recente a cura di Mauro Sambi, Martin Muma di Ligio Zanini, un piccolo capolavoro che è difficile definire, con un piglio da romanzo picaresco e una combinazione di leggerezza in cui i venti dell’Istria e delle isole, la spuma del mare e il guizzare dei pesci sotto la barca, la fraternità del ragazzo e poi giovane uomo con gli altri compagni si uniscono, in una tragica ma sempre umanissima simbiosi, con la tragedia dell’Istria e del mondo che si imbarbarisce, con il dramma di chi è partito e di chi è rimasto. E infine la spaventosa barbarie di Goli Otok, l’Isola Calva divenuta, al momento dello scontro tra Tito e Stalin che lacera il mondo comunista, un terribile lager, dove finirà pure Zanini.
Le genti che abbandonarono la penisola istriana, portandosi dietro masserizie
e ricordi, incontrarono non soltanto disagi
ma pure incomprensione e ostilità
Terminata la Seconda guerra mondiale, Zanini non ha voluto partire, lasciare l’Istria, perché riteneva che la presenza italiana, in quelle terre e su quei mari, non dovesse venire cancellata. Ne ha pagato, più tardi, un prezzo fortissimo, di cui non si è mai pentito. La sua è un’educazione sentimentale al coraggio, alla fedeltà al proprio mondo e ai doveri verso di esso. Fedeltà soprattutto ai compagni d’infanzia, di giovinezza e di strada in questo cammino, che ad un certo punto diventa tragico e bestiale ma senza che Ligio, e altri come lui, perdano l’anima né la testa.
Nella prefazione, Ezio Giuricin ricorda che in questo romanzo — scritto anni prima della sua prima pubblicazione, nel 1990, su «La Battana», la rivista culturale del gruppo nazionale italiano — Zanini ha voluto raccontare il mondo, esterno e interiore, degli italiani rimasti in Istria e a Fiume dopo la Seconda guerra mondiale, con un linguaggio letterario unico e inconfondibile in cui confluiscono filoni diversi, dal dialetto ostro-romanzo all’istroveneto delle città alla presenza di termini ed espressioni croate. Rare volte uno scrittore è riuscito ad esprimere con tanta forza e leggerezza la formazione di una personalità attraverso l’acquisizione di sfumature diverse di linguaggio e di rapporti con le cose e con le persone. Figure di nonni, di amici, di animali; gioco di colori e di suoni; dialoghi, mentre la barca fila sulle onde, col cucal Filéipo, il gabbiano Filippo. In questo libro non c’è nulla di arcadico; c’è la vita, l’onda che sbatte e si ritrae, il cordame, il lavoro con le vele, il calare del sole. È difficilissimo far parlare le cose, gli odori, le grida sul lavoro, le reti colme di pesci, come fa Ligio. Zanini non assomiglia ai viandanti romantici di tanta lirica tedesca; piuttosto, stabilite le distanze di grandezza, a Goethe che osserva e impara a conoscere le nuvole.
La storia di Zanini rimane paradossalmente limpida e umana anche quando attraversa gli Inferi, il lager di Goli Otok dove il regime di Tito, quando si stacca da Stalin, fa deportare gli stalinisti jugoslavi, che avevano già conosciuto altri lager terribili e ora resistono paradossalmente in nome della fedeltà a Stalin che riempiva il mondo di gulag come l’Isola Calva. Anche Ligio finisce in quell’inferno, è sottoposto alla tortura del kroz stroj, dove il punito deve passare attraverso le file di altri condannati che devono percuoterlo sino allo sfinimento. La storia di Goli Otok, degli stalinisti perseguitati dai titoisti, è uno degli Inferi della Storia del Novecento, anche per la confusione delle parti, perché in quel momento il distacco di Tito da Stalin è un grande aiuto all’Occidente e la Jugoslavia titoista, sino alla sua sanguinosa dissoluzione, avrà dei periodi di civile progresso. Ma Goli Otok resta una delle più infami e paradossali barbarie della Storia, che attira come una calamita in un mare ghiacciato.
Il miracolo di questo libro è che Ligio passi attraverso sofferenze che non ledono minimamente la sua personalità, la sua capacità di amicizia e di affetto, il suo straordinario rapporto d’amore con la moglie Maria Stella, la sua solidarietà con gli amici, le sue memorie d’infanzia e di famiglia. La Storia universale gli passa sopra come un rullo compressore, ma non è in grado di distruggerlo. Si capiscono tante cose imparando la libertà assoluta di Ligio dalla paura. Questo libro fa toccar con mano come la dignità che ci può essere anche in un orribile lager non venga lesa quando ad affrontarla è un simile coraggio.
Antifascista ai tempi del fascismo, Zanini non ha voluto diventare un esule, né subito dopo la guerra né dopo la sua odissea. L’ho incontrato una sola volta; colpivano il suo sorriso che parlava di libertà, anzitutto interiore, la robustezza di tutta la persona franca ed ardita. Gli ho chiesto perché, neanche dopo le sue terribili vicende, non fosse andato in Italia. Perché non voglio mangiare nel piatto in cui avevo sputato, mi ha risposto.