Anticipazioni «Antonino Pio e Marco Aurelio»: ritratto di un’epoca nel saggio dell’archeologo in uscita domani per Rizzoli
Andrea Carandini racconta l’apice dell’Impero: virtù e strategie della classe dirigente
di Paolo Conti
Parole dure come pietre: «Inesperienza e Immediatezza, gorgoglii di un interiore in subbuglio che non sa pensare, hanno spodestato Competenza e Responsabilità, alle quali dovrebbe invece ispirarsi una classe dirigente degna di questo nome, che voglia distinguersi da gruppi politici narcisi che a tutto hanno mirato fuorché all’interesse dell’insieme dei cittadini». Le maiuscole trasformano quelle categorie politico-sociali in altrettanti interlocutori, vivi ed eloquenti.
Andrea Carandini, da grande archeologo e storico di Roma, nell’introduzione al nuovo libro Antonino Pio e Marco Aurelio. Maestro e allievo all’apice dell’Impero (arricchito da un vasto corredo di contesti firmato da Niccolò Cecconi, Maria Teresa D’Alessio, Tommaso Della Seta, Marco Galli e in uscita domani per Rizzoli), propone un robusto filo conduttore per legare quell’irripetibile passato — appunto l’apice dell’Impero romano — al presente. Tenendolo ben saldo, si avverte tutto il disorientato disgusto che Carandini prova per l’oggi, descritto come un dissesto strutturale: «A compenso del maremoto d’insipienza che infuria sull’intero Occidente, in una decadenza che mai incontra il suo fondo, Clio (musa dell’epica e della storia, ci rammenta l’autore, figlia di Mnemosyne, dea della memoria, ndr) dona forme di vita impossibili che rispuntano dai millenni, a cui è possibile aggrapparsi nell’inappagato bisogno di civiltà, per scavalcare un presente ingiusto, infelice, superficiale, miope e volgare, specializzato in decadenza». Più avanti Carandini dirà spietatamente che, in questo quadro di dissoluzione, stavolta «i barbari siamo noi».
Per non perire nel gorgo, direbbe un classicista, Carandini propone al lettore esempi «di preclare virtù, come quando il principe di Roma antica che governava un impero — realtà mai più rivista in Occidente, mentre continua a splendere il pur sempre tirannico Celeste impero — era scelto tra coloro che si erano felicemente sperimentati nella cosa pubblica, come è accaduto a Nerva con Traiano, ad Adriano con Antonino Pio e a quest’ultimo con Marco Aurelio».
E qui parte il viaggio di Carandini nel cuore degli «84 anni felici, tra il 96 e il 180, dei 5 imperatori “ottimi e buoni” secondo la storiografia filosenatoria», ovvero Nerva-Traiano-Adriano-Antonino Pio-Marco Aurelio. Anni che bilanciarono «gli 82 dei principi Giulio-Claudi e Flavi che avevano lasciato un orribile ricordo» imbrattato di sangue, stragi e drammatici suicidi come quello di Nerone.
Primo presupposto: nessuno dei cinque eccellenti imperatori «è stato figlio del predecessore, la scelta del successore si è basata fondamentalmente sull’adozione del «”migliore” e del ben maritato nell’ambito della casata imperiale». Secondo presupposto, di stupefacente attualità, il ruolo fondamentale delle donne: «Legami di parentela legano Traiano ad Adriano, Adriano ad Antonino Pio e quest’ultimo a Marco Aurelio tramite le donne, che sempre più erano diventate trasmettitrici ai mariti di una dote, l’impero».
Altro che archeologia: un avanguardistico e severo sistema di selezione della classe dirigente che per di più avviene sotto l’attento controllo delle donne, molte delle quali titolari di immense eredità personali. Spiega Carandini: «Così l’impero passava, di principe in principe, di adozione in adozione, ma anche di eredità in eredità trasmesse dalle donne della casata Ulpia: prima da Traiano a Sabina, figlia di Matidia e nipote di Marciana; poi da lei a suo marito Adriano; quindi da Traiano a Rupilia Faustina, anche lei figlia di Matidia e madre di Faustina (Maggiore); poi da quest’ultima a suo marito Antonino Pio; infine da Traiano a Faustina (Minore), figlia di Faustina (Maggiore) e nipote di Rupilia Faustina, e poi da lei a suo marito Marco Aurelio».
L’autore ci conduce nei meandri di quel potere, regalando istantanee che oggi susciterebbero il sarcasmo di chissà quanti potenti. Adriano si commuove, verso la fine della sua vita, vedendo Antonino Pio «in una riunione del Senato sostenere piamente il passo malfermo del suocero Annio Vero, ormai più che ottantenne». Al momento dell’adozione — Carandini cita Cassio Dione — Adriano, conscio della sua imminente fine, lo indica così a un gruppo di «senatori ragguardevoli» accorsi a villa Adriana: «Vi ho trovato un imperatore che vi affido. Nobile, affabile, mansueto e prudente, il quale non può fare nulla avventatamente a causa della giovinezza e nulla negligentemente a causa della età veneranda. Un uomo cresciuto nel rispetto delle leggi e che ha rivestito le magistrature secondo il costume degli antenati, tanto da conoscere tutto quello che concerne il potere imperiale e da saperne disporre opportunamente». Cassio Dione testimonia della «riluttanza» di Antonino Pio ad accettare la designazione. Così come riluttante sarà Marco Aurelio quando verrà adottato da Antonino Pio: «Era molto spaventato, pensando ai mali che il potere imperiale avrebbe comportato tanto che la notte dell’adozione ha sognato di avere le braccia di avorio, quasi fosse diventato rigido, come una statua di culto crisoelefantina». Sogno che avrebbe fatto la felicità di un Carl Gustav Jung.
Antonino Pio, racconta Carandini, era un eccellente amministratore non solo dell’Impero ma anche del suo congruo patrimonio personale (lasciato interamente a sua figlia Faustina Minore, moglie dell’adottato Marco Aurelio): eppure, appena sveglio, faceva colazione col pane secco e negli anni della vecchiaia si arrese a indossare un busto di stecche di tiglio pur di apparire sempre eretto come doveva un imperatore. Nel tempo libero vendemmiava, cacciava e pescava da uomo sobrio e tenace. Infatti Marco Aurelio, nei celeberrimi Pensieri analizzati dall’autore nel suo libro, ribadisce a sé stesso i dettami ereditati da Antonino Pio: «Bada di non cesarizzarti. Mantieniti semplice, buono, integro, grave ma non ricercato, amico della giustizia, pio, benevolo, affettuoso ed energico nel compiere le azioni che, in quanto principe, ti si addicono». C’è da chiedersi quanti potenti contemporanei, italiani e non, possano affermare di non «essersi cesarizzati».
Il libro è una miniera di fonti, storie documentatissime, aneddoti mai pettegoli, strategie militari e politiche, snodi religiosi e filosofici. Poi, l’inevitabile declino con Marco Aurelio, che gestisce «una consapevole decadenza» dopo l’apice di Antonino Pio. Osservando sempre una regola, tratta dai Pensieri: «Considerare che esistiamo gli uni per gli altri e che, da un altro punto di vista, io esisto per stare innanzi a loro, come imperatore, come l’ariete sta a difesa del gregge». Il filo di Carandini è robustissimo: che amarezza pensare all’oggi.