di Massimo Franco
La coincidenza tra la firma dell’Italicum da parte del capo dello Stato, Sergio Mattarella, e l’abbandono del Pd deciso da un esponente della sinistra, Giuseppe Civati, è emblematica. Legittima la riforma elettorale dal punto di vista istituzionale, e insieme conferma l’inizio di una nuova fase nel partito del premier. La scelta di Civati di uscire dal Pd solo ora sottolinea la rottura che l ’Italicum produce non solo tra ma dentro i partiti. I fedelissimi di Matteo Renzi usano parole di circostanza. «Dispiace ma non siamo preoccupati», chiosa il vicesegretario, Lorenzo Guerini: sebbene non si capisca bene quanto sia sincero il dispiacere.
L’unica cosa chiara è che la minoranza del Pd si prepara a usare quell’uscita come certificazione del malessere non tanto della nomenklatura ma dell’elettorato verso la strategia renziana; e come lo spauracchio di una lenta emorragia, prima ancora che di una scissione. Eppure, non si avvertono a Palazzo Chigi né l’intenzione né la voglia di cambiare direzione per riassorbire quel dissenso. Le braccia aperte di Sel, la formazione di Nichi Vendola, nei confronti di Civati e di altri eventuali Dem delusi, non sono un problema. Anzi, rafforzano l’insistenza renziana su una linea che sfida, quasi provoca gli oppositori.
È una strategia che a parole sostiene la tesi di un Pd-arca, attento a tenere dentro tutta la sinistra e a scongiurare rotture; nei fatti insegue un progetto moderato di sfondamento al centro, e un modello presidenziale che ha in Renzi il leader indiscusso e il «partito della Nazione» come esito: un’idea alla quale l’ Italicum sarebbe perfettamente funzionale.
In questo schema, spazi per un dissenso percepito, in effetti, «solo come un fastidio», nelle parole degli oppositori, saranno sempre più marginali. E dunque, l’alternativa diventerà presto tra un atto di sottomissione al segretario e premier, o la presa di coscienza che il Pd è diventato altra cosa rispetto alle origini.
Si tratta di uno scontro che mescola problemi di identità e protagonismi. Oppone la classe dirigente storica, per lo più ma non solo postcomunista, ad un manipolo di renziani che hanno conquistato prima il Pd con le primarie, poi Palazzo Chigi e il governo. E adesso, forti della propria determinazione e degli errori avversari, cominciano a guardare oltre: oltre i confini dello stesso Pd, e oltre le elezioni regionali di maggio, e verso quelle politiche del 2018 o quando saranno. Il tentativo è di vedere come andrà il voto a fine mese, e poi decidere su un nuovo partito; e trasferire la sfida al Senato dopo l’estate.
Ma, appunto, l’impressione è di una trincea sempre più arretrata; di un altolà gridato da posizioni di retroguardia, perché non esiste un’agenda alternativa a quella renziana: nel Pd e perfino dentro FI. Avere detto «sì» all’inizio del percorso dell’ Italicum ora rende più difficile, perché meno spiegabile, il «no». E la perdita di pezzi di sinistra finisce per sottolineare la vittoria del presidente del Consiglio. Dire, infatti, che il passo di Civati fuori dal Pd è «una sconfitta», come alcuni esponenti della minoranza, è una tesi condivisa a seconda dei punti di vista. Il sospetto è che Renzi e i suoi sostenitori la pensino in maniera opposta: anche se alla vigilia delle regionali quello che succede può diventare un inciampo.