Roberto Esposito
Dalla legge di bilancio, in corso di approvazione, arriva un colpo mortale per l’Università italiana. Già la manovra è estremamente allarmante per tutto il settore della cultura. La scuola perde quasi quattro milioni, con il taglio degli insegnanti di sostegno. Altre risorse vengono sottratte ai beni culturali. Ma l’Università rischia un vero collasso per l’effetto congiunto del blocco delle assunzioni per tutto l’anno prossimo e dei possibili prepensionamenti. Colpisce che il responsabile ultimo di queste scelte sia un professore universitario. Si sapeva che i due provvedimenti bandiera del reddito di cittadinanza e della quota- cento — in verità quel che ne resta — avrebbero richiesto sacrifici. Che gli investimenti sarebbero stati ridotti ai minimi termini. Ma che si colpisse tanto duramente il volano decisivo dello sviluppo del Paese — vale a dire la ricerca e la formazione — non ce lo si aspettava. Per di più in un comparto già depresso e sotto- finanziato colpevolmente dai governi precedenti. E questo quando si attendeva un piano straordinario di reclutamento che riempisse almeno in parte i vuoti determinati dai recenti pensionamenti. Come ha osservato amaramente il rettore dell’Università di Venezia, a questo punto i docenti precari dell’Università possono sperare solo di entrare nelle fantomatiche liste del reddito di cittadinanza.
Già l’Università italiana, nel suo complesso, e certo con qualche eccezione, versa in condizioni penose. In pochi anni i docenti in servizio si sono quasi dimezzati. Per non parlare degli amministrativi. Collocata in basso — anche qui con le note eccezioni — nella classifica di tutti i rating internazionali, divisa, per prestigio e risorse, tra Centro- Nord e Sud, gonfia di ricercatori che non riescono ad acquisire un ruolo stabile, l’Università avrebbe avuto quanto mai il bisogno di essere messa in sicurezza. Non tutti gli studenti, gravati da tasse spesso inique, godono di uguale diritto allo studio. Nuove assunzioni sarebbero state assolutamente necessarie. In alcune discipline non è possibile neanche dare gli esami per mancanza di professori. La ricerca è talmente sottopagata, e anche scoraggiata, che i migliori talenti sono costretti a emigrare, spesso conseguendo risultati straordinari dai quali il nostro Paese è escluso. Rimandare di un anno le assunzioni di professori di prima e seconda fascia vuol dire non solo rinviare di molto la messa a regime dell’intera docenza, ma infliggere un colpo definitivo alle speranze di studenti e ricercatori.
L’impressione è che l’attuale governo, notoriamente ostile alle competenze, voglia spingere alle corde l’intero ambito del sapere. Quello che così s’interrompe non è solo il filo delle competenze, ma anche la crescita di una classe dirigente che in tutte le democrazie occidentali nasce dalla formazione. In Italia non si mai riusciti a saldare lo sviluppo, necessario e positivo, dell’Università di massa con la costruzione di una rete di Alte scuole in cui alcuni saperi specialistici raggiungano un livello competitivo su scala mondiale.
Non è vero che le due cose sono incompatibili. A patto che l’eccellenza non si chiuda in oasi isolate, ma si ponga al servizio di tutto il sistema universitario nazionale, rivitalizzandolo dall’interno. Si tratta di mettere in circolo i prodotti migliori, facendo crescere intorno a essi anche i settori meno avvantaggiati. Esattamente il contrario di quanto si sta facendo, magari assegnando a un solo Ateneo risorse che metterebbero a regime diversi altri. Come è appena accaduto nell’avventata vicenda della Scuola superiore meridionale.
Occorre, prima che sia troppo tardi, che tutte le componenti universitarie si mobilitino contro questo scempio in tutte le forme non lesive dei diritti degli studenti.