La scrittrice Usa spopola con un romanzo su migranti messicani. E dai social parte l’attacco: la sua è appropriazione culturale. Ma lo è davvero?
di Paolo Di Paolo
Ah, le buone intenzioni! Recensendo sul New York Times il romanzo Il sale della terra
(in originale American Dirt ) di Jeanine Cummins, la collega Lauren Groff dice che è stato scritto «con buone intenzioni». A giudicare dal dibattito che il libro – pubblicato in Italia da Feltrinelli, nella traduzione di Francesca Pe’, in contemporanea con l’uscita negli Stati Uniti – sta animando, le buone intenzioni non sono bastate. Vendite a parte: è primo nella classifica dei bestseller Usa.
Se da un lato i “blurb” d’autore, gli strilli pubblicitari che hanno accompagnato enfaticamente la pubblicazione – da Stephen King a Don Winslow, da Tracy Chevalier a John Grisham – parevano inattaccabili quanto la benedizione di Oprah Winfrey, le prime letture hanno complicato le cose. La vicenda narrata è quella di una madre e di suo figlio di otto anni che fuggono dai narcos messicani e cercano di raggiungere los Estados Unidos , trascinando con loro altri migranti. Prosa veloce, a effetto, sovraccarica di ispanismi: «Un thriller – come giustamente ha scritto Groff – con una posta in gioco reale ». Qual è il problema, dunque? La reazione perplessa di alcuni autori e intellettuali di origine messicana – tra i primi, Myriam Gurba – è rimbalzata e si è propagata sui social: a Cummins viene rimproverato di raccontare la tragedia della migrazione in una prospettiva limitata e zeppa di stereotipi.
C’è da dire che, in una lunga nota a fine romanzo, l’autrice già metteva le mani avanti: rivendicando la provenienza «da una famiglia di cultura ed etnia mista» e il matrimonio con «un immigrato senza documenti ». Cummins si difendeva insomma preventivamente, facendo leva sul suo lungo lavoro di documentazione e su una nonna portoricana male accolta negli Stati Uniti. Non è bastato: le vengono contestate le connotazioni superficiali dei personaggi, le scene da filmaccio sui narcos, il tono da melodramma «dannoso e impreciso », scritto per il pubblico bianco di riferimento. Un centinaio di scrittori ha firmato una lettera a Oprah Winfrey – la megastar televisiva afroamericana – perché rivedesse il suo giudizio sul romanzo di Cummins. Lei ha accolto le obiezioni, rendendosi disponibile ad aprire il dibattito. Quanto all’autrice – mentre qualcuno le rinfaccia anche il vertiginoso anticipo ricevuto (oltre un milione di dollari, pare) – ha sospeso il tour di presentazioni. E la casa editrice, Flatiron Books, non sa più come parare i colpi.
Così, un interrogativo radicale riprende piede: chi può parlare di cosa? L’ipersensibilità contemporanea intorno ai parametri del politicamente (e in questo caso etnicamente) corretto non facilita la risposta. Solo un messicano può scrivere di migrazione messicana? No – ha risposto sul Washington Post uno studioso di cultura latinoamericana – il punto è un altro: l’accuratezza, la profondità. A chi difende timidamente la libertà di Cummins di scegliere il tema del proprio romanzo, c’è chi risponde additando la prepotenza dell’industria culturale statunitense, fatta da bianchi per i bianchi. E le «buone intenzioni»?
Intervistata sul Venerdì di Repubblica da Anna Lombardi, Cummins raccontava di aver pensato più volte di rinunciare all’impresa: «Chiedendomi se avevo il diritto di raccontare una storia non mia, un’esperienza non vissuta in prima persona». Se il soggetto de Il sale della terra fosse un altro, qualcuno si preoccuperebbe del fatto che l’autrice ha raccontato una storia non sua? È il presupposto del romanzo, della fiction. Chi avrebbe mai potuto obiettare a Charles Dickens, mentre trionfava il suo romanzo sociale, di non avere avuto esattamente la stessa infanzia di Oliver Twist? Era un romanziere, no?
«Contengo moltitudini» dice un verso di Walt Whitman; e non è un caso che di recente Zadie Smith abbia imperniato su quel verbo – contenere – una sua riflessione sull’arte del romanzo pubblicata sulla New York Review of Books. Dobbiamo leggere quel “contenere” come un’appropriazione indebita, come un atto di colonizzazione? Non posso accettare – scrive Smith – l’idea «che si possa e si debba scrivere solo delle persone “simili” a noi: dal punto di vista etnico, sessuale, genetico, nazionale, politico, personale. Che solo un intimo legame autobiografico con il personaggio, da parte dell’autore, possa essere la base legittima di un’opera di letteratura. Io non ci credo». La scrittrice anglo-giamaicana ragiona sull’imprevisto «imbarazzo » che sempre più spesso la fiction desta, ne coglie le motivazioni.
È curioso, in effetti: siamo letteralmente avvolti dalle narrative di finzione (dai videogame alle serie tv a molti programmi della vecchia tv generalista) e ne discutiamo come di dati oggettivi. Smith, in ogni caso, difende l’«arte di presumere»: «I romanzi sono macchine costruite apposta per farci credere in qualcosa di falso». Chi stabilisce i limiti del “falso”? Contenere l’altro, essere affascinati dal presumerne i sentimenti comporta, sostiene Smith, il rischio di sbagliare.
Cummins ha sbagliato? Ha valutato fino in fondo i rischi delle proprie «buone intenzioni»? Lei dice di sì, ma non è detto che bastino. Per uno scrittore di romanzi nel terzo decennio del ventunesimo secolo, temo, non bastano più. Quando Smith si chiede: «Il romanzo che ho di fronte è un tentativo di compassione o un atto di contenimento?», mette in gioco una domanda perfetta per la circostanza. È compito di una coscienza individuale rispondere, insiste la scrittrice: non sempre funziona il concetto di appropriazione culturale, né altre categorie generali.
Non funziona nemmeno la canea dei social. Decide il singolo lettore, solo il singolo lettore. E, così come lo scrittore, può sbagliare anche lui.