di Pietro Citati
Astolphe de Custine nacque, nel marzo 1790, da una grande famiglia aristocratica francese. Il padre venne ghigliottinato nel gennaio 1794: la madre Delphine incarcerata prima a Sainte-Pélagie, poi al convento dei carmelitani. Chateaubriand ebbe una lunga relazione con lei, e scrisse nel castello dei de Custine, a Fervaques, I martiri , di cui teneva lettura la sera.
Nel 1811, Astolphe partì per un viaggio di tre anni in Germania e in Svizzera: strettamente legato a Luigi XVIII, entrò nell’esercito con il grado di maggiore, e partecipò al Congresso di Vienna, sotto l’influenza di Talleyrand. Si abbandonò contemporaneamente alle sue doppie tendenze sessuali: sposò Léontine de Saint-Simon, con la quale trascorse un anno di matrimonio felice, e poi fuggì per tre mesi in Inghilterra con Edouard de Sainte-Barbe. Il 28 ottobre 1824 venne aggredito dai compagni di un artigliere della guardia, con il quale aveva un convegno amoroso: percosso, spogliato degli abiti e abbandonato privo di sensi in un fosso. La sua reputazione fu completamente distrutta.
Nel 1839 compì un lungo viaggio in Russia: poi si ritirò in Italia, dove scrisse Lettere dalla Russia: la Russia nel 1839 (a cura di Pierre Nora, traduzione di Paola Messori, Adelphi, pagine 368, e 20), che ottenne un grande successo di pubblico in Francia e nei Paesi di lingua inglese. Era andato in Russia per cercare argomenti contro la democrazia: ma il viaggio lo trasformò; il libro diventò un appassionato atto di accusa contro il dispotismo che dominava la Russia e il dispotismo in generale.
Appena giunto ai confini russi, venne assalito da un movimento di ripulsa verso il Paese, il governo e gli abitanti: ebbe voglia di fuggire, e proseguì il viaggio in preda a un indicibile malessere. Per cinque mesi attraversò la Russia: curioso, attentissimo, ma estraneo nel cuore a tutto quello che scorgeva. Scrisse nervosamente e furiosamente, in preda alle impressioni che lo assalivano: senza rifiutare nessuna delle idee accessorie, lasciando ribollire la sua fantasia appassionata e isterica; poi, timoroso di essere inviato in Siberia, nascose le sue lettere in luoghi segreti.
Quando li vide da vicino, si accorse che tutti i russi, dallo zar fino ai servi della gleba, erano ubriachi di schiavitù: una schiavitù che diventava tanto più terribile quanto più aveva paura di sé stessa, e dominava persino la natura. Altre nazioni soffrivano l’oppressione: mentre i russi la adoravano. Il dispotismo sfrenato produceva nell’animo umano l’effetto di una bevanda inebriante; e le vittime diventavano i complici più zelanti dei loro carnefici. Un’ambizione sconfinata, una di quelle ambizioni che solo può germogliare nell’animo degli oppressi, fermentava nel loro cuore; e li gettava ai piedi dei padroni.
Gli uomini che de Custine incontrava, specialmente a Pietroburgo, gli parevano rigidi e impacciati: ogni gesto esprimeva una volontà che non stava nelle persone che agivano — ma altrove, in un altro, in un imperatore che faceva muovere come burattini sessanta milioni di sudditi. Era una popolazione di automi. Tutto ciò che si vedeva assomigliava a una partita a scacchi dimezzata, nella quale un solo giocatore spostava ogni pezzo sul tavolino.
Nessuno si muoveva, nessuno respirava se non in conseguenza di un permesso o di un ordine imperiale. Tutto era tetro e coatto. Ufficiali, cocchieri, cosacchi, lacchè, cortigiani, ognuno servitore a diverso titolo dello stesso padrone, obbedivano ciecamente a un pensiero che non conoscevano. Era un capolavoro di meccanica militare. I russi non parlavano altro che dell’imperatore: di lui, della sua residenza, dei progetti che lo occupavano sensibilmente: erano gli unici pensieri degni di riempire la loro mente. Invocavano lo zar Nicola come se fosse un dio: poco mancava che lo adorassero. L’imperatore era il solo uomo dell’impero con il quale si poteva conversare senza timore di venire spiati: il solo in cui de Custine riconosceva i sentimenti naturali di un cuore sincero. Se egli fosse vissuto in Russia con un segreto da nascondere, l’imperatore sarebbe stata l’unica persona alla quale lo avrebbe confidato.
La grande scena della Russia di Nicola discendeva da una paurosa invenzione di Pietro il Grande: il cin . Subito dopo aver costruito Pietroburgo, egli applicò il regime militare all’intera società, anche alle caste che non andavano in guerra. La popolazione civile era stata divisa in classi corrispondenti alle classi dell’esercito. Così la Russia era diventata un reggimento di sessanta milioni di uomini: composta di quattordici classi. La quattordicesima, la più bassa, che corrispondeva al grado di sottufficiale dell’esercito, comprendeva gli infimi impiegati del governo: commessi postali, fattorini, altri subalterni incaricati di eseguire gli ordini degli amministratori. La prima classe, in cima alla piramide, era composta da un uomo solo: il maresciallo Paskevic, viceré di Varsavia.
La Russia era una profusione di piccole precauzioni superflue. Ciò generava un popolo di subalterni: ciascuno di essi adempiva al compito affidatigli con una pedanteria, una inflessibilità, un’aria di sussiego, che dava spicco all’incarico più oscuro. Ciascuno pensava: «Fatemi largo, sono una delle membra della grande macchina statale». L’impiegato era vivo come può essere vivo un ingranaggio di orologi. Eppure, in Russia, una cosa simile veniva chiamata uomo. Custine scriveva: «Vedere questi automi volontari mi spaventa. C’è un che di soprannaturale in una massa di individui ridotti allo stato di oggetti meccanici». Era la stessa burocrazia, che Gogol quasi negli stessi anni rappresentava nei Racconti di Pietroburgo e nelle Anime morte.
Tutta la Russia emanava lo stesso odore: un aroma di cipolle, di crauti e di cuoio grasso, che avvolgeva i villaggi e le città russe e i loro abitanti. Niente era, dunque, più evidente e identificabile della Russia. Ma, al tempo stesso, questa Russia così visibile era un segreto, che presiedeva ad ogni cosa: segreto amministrativo, politico, sociale: riserbo utile e inutile; silenzio superfluo per assicurare il silenzio necessario. Ogni cosiddetto segreto di stato era occultato con precauzioni puerili; e queste precauzioni rivelavano più di quanto avrebbero fatto atti patenti di barbarie, e questo governo era in primo luogo una tirannide ipocrita.
Non c’era né sincerità né libertà né franchezza. I russi di tutte le classi brigavano, mirabilmente concordi, affinché in casa propria trionfasse la doppiezza. Erano così bravi a mentire, così naturali nell’ipocrisia, che de Custine ne inorridiva e ne era spaventato. Tutto ciò che dava un senso e un fine alle istituzioni politiche, si confondeva in un sentimento solo: la paura. In Russia la paura sostituiva, vale a dire paralizzava, il pensiero: quando era l’unico a regnare, questo sentimento di paura non poteva produrre se non una parvenza di civiltà; non era l’ordine, ma soltanto un velo gettato sul caos. La paura — commentava de Custine — non sarà mai l’animo di una civiltà bene organizzata: dove manca la libertà, manca l’anima e la verità. La Russia era un corpo senza vita, un colosso che sopravviveva solo perché aveva la testa, ma tutte le sue membra, ugualmente prive di forza, deperivano. Da qui, un’inquietudine profonda, un indicibile malessere: che esprimevano una vera sofferenza, una malattia organica. I russi — pensava de Custine — erano gli uomini più infelici della terra.
Con uno sguardo solo, de Custine percorse tutta l’estensione della storia russa: dai tempi di Ivan IV al futuro che vedeva nascosto nell’ultima parte dell’Ottocento. Alla fine del Sedicesimo secolo, sia per divertirsi a misurare la longanimità dei russi, sia per pentimento cristiano, sia per paura o capriccio, sia per stanchezza o astuzia, Ivan IV depose lo scettro, gettando a terra la corona. Allora, ma soltanto allora, tutto l’impero si commosse: la nazione minacciata dalla liberazione dal tiranno, si risvegliò come di soprassalto.
I russi, fin lì strumenti passivi di migliaia di orrori, ritrovarono la voce; e quella voce di popolo, che pretendeva di essere la voce di Dio, si alzò all’improvviso per deplorare la perdita di un così tremendo padrone. Senza più scampo, fiaccata dalla sua secolare inerzia, la Russia cadde sgomenta ai piedi di Ivan IV: implorò quel padre indispensabile, ne raccolse la corona e lo scettro insanguinati, e glieli rese. Niente doveva mutare mai. De Custine presagiva che alla fine del diciannovesimo secolo, sarebbe avvenuta una rivoluzione più terribile di quella francese. Sarebbe stata — sosteneva — inevitabile e spaventosa.
De Custine era affascinato dall’orrore della storia russa passata e futura: «Questa impassibilità fisica nel bel mezzo degli atti più violenti — scriveva in modo mirabile — questa audacia mostruosa nel concepirli, questa freddezza nel mandarli ad effetto, questo silenzio del furore, questo frenetico mutismo». Come dice George F. Kennan, se le Lettere dalla Russia non erano un libro perfetto sulla Russia del 1839, erano certo un libro meraviglioso, il migliore che sia mai stato scritto, sulla Russia di Stalin e di Breznev. Astolphe de Custine sarebbe stato felice di veder così riconosciuto il suo talento di profeta.