di Pierluigi Ciocca
Il mondo alla rovescia di Giangiacomo Nardozzi, del Politecnico di Milano, libro edito dal Mulino, è chiaro e fruibile da ogni lettore, nella complessità delle questioni trattate. È il distillato dello studio, teorico ed empirico, condotto negli anni da uno dei maggiori fra gli economisti italiani impegnati sui temi della finanza.
Nardozzi vede appunto «un mondo alla rovescia»: troppa finanza, troppa moneta, latitanza dei governi, loro delega di responsabilità alle banche centrali. Ne è scaturita un’economia «diretta», non dagli Stati, ma da una finanza «geneticamente modificata»: un ogm che ha generato la droga dell’indebitamento, le bolle speculative, da ultimo il dissesto Lehman del settembre 2008 a cui sono seguite, nel 2009, la caduta del 3,4% del Pil nelle economie avanzate e la crescita zero dell’economia mondiale. A imbrigliare la finanza in futuro non basteranno le regole, complicate e poco innovative, a fatica introdotte dopo la crisi.
«Le conclusioni? Il lettore non troverà proposte, ma una morale: va rilanciata ai governi la palla che hanno passato alle banche centrali, sovraccaricandole di responsabilità». L’instabile economia capitalistica va governata in primo luogo… dai governi: con buone leggi, con il controllo delle aspettative, con la politica fiscale (una sapiente gestione del livello, del saldo, della composizione del bilancio pubblico).
L’invito alla lettura del libro è caloroso. Lo stile vivido e il merito degli argomenti costringono anche l’esperto a riflettere criticamente. Chi scrive è, un po’ paradossalmente, indotto a conciliare la larga condivisione dell’analisi, il dubbio su alcune proposizioni, la piena adesione alla «morale» conclusiva.
Il capitalismo è per sua natura instabile (Keynes). La finanza può innescare, o accentuare, le manifestazioni dell’instabilità. Peraltro soddisfa domande che l’economia esprime. Permette e corrobora lo sviluppo economico. Negli anni precedenti la crisi del 2008-2009 la quantità di finanza è cresciuta, ma non in misura abnorme e dovunque. Nel rapporto con la ricchezza reale fra il 1998 e il 2008 è esplosa da 3 a 6 in una City che però fa da intermediaria per il mondo, più che per la «piccola» economia britannica; è aumentata da 3 a 3,3 negli Stati Uniti; è diminuita da 1,3 a circa 1 in Italia. Su scala mondiale lo stock di moneta — banconote e depositi — è aumentato in rapporto al Pil del 7% fra il 2005 e il 2008. In altre fasi storiche questi indicatori erano cresciuti più rapidamente, senza che solo per questo avvenissero crisi.
Con la dilatazione della finanza hanno quindi interagito nell’ultima crisi altri fattori. Lo scadimento qualitativo della finanza — ben descritto nel libro – ha influito a mio avviso più della sua espansione (qual è il limite quantitativo?). Dal lato «reale» ha anche influito, negli Usa, la volontà politica — di Clinton, poi di Bush — di favorire l’acquisto dell’abitazione da parte di famiglie a basso reddito, con mutui subprime . Questa ricerca del consenso si è unita a un’ascesa e poi a un crollo del prezzo delle case estesi all’intero paese, mentre in passato la varianza territoriale delle quotazioni aveva consentito agli operatori di diversificare il rischio. Se la Fed non avesse sostenuto la finanza allorché implosero le bolle susseguitesi fra il 1987 e il 2006 si sarebbe evitata la Greenspan put, ma la recessione del 2009 sarebbe stata anticipata.
La finanza gestisce enormi risorse ma è cieca. Non «dirige» alcunché, se la politica economica non orienta l’economia. È da sempre impopolare, oggetto di critiche al limite della demagogia che i governi e i media opportunisticamente lasciano montare. Mutatis mutandis , lo stesso dicasi delle banche centrali. Come il libro chiarisce, le banche centrali, costrette a concentrarsi sulla politica monetaria antinflazionistica, si sono ritrovate a fronteggiare bolle speculative. Nell’Eurozona, nel Regno Unito, in Giappone, negli stessi Stati Uniti hanno visto scemare la supervisione della finanza. Sono prevalse la favola teorica dei «mercati efficienti» e la moda del modello «Bundesbank», non del modello — diciamo — «Banca d’Italia». Forse non è un caso che l’Italia, pur avendo accusato il più profondo cedimento del Pil reale pro capite (-10% fra il 2007 e il 2014), non abbia sperimentato dissesti delle banche, meglio vigilate che altrove.
Dopo la pausa del 2009 lo sviluppo dell’economia mondiale è ripreso, accelerando verso il 4% l’anno previsto dal Fondo monetario internazionale entro il 2020. Gli stessi squilibri distributivi si sono ridotti fra i cittadini del mondo (Cina e India accorciano le distanze!) e si sono nell’insieme solo lievemente accentuati fra i cittadini dei singoli Paesi (Bourguignon). Ciò, nonostante gli assurdi, inutili, emolumenti di banchieri e finanzieri, giustamente deprecati nel libro. Mattioli e Cuccia guadagnavano molto meno di loro eredi privi di attributi…
È indubbio, tuttavia, che la dilatazione incontrollata della cattiva finanza ha molto contribuito all’instabilità, e può contribuirvi in futuro. Che fare? Sulla scia della «morale» del libro, tre vie sembrano percorribili. Migliori regole, certo: regole basate sull’esperienza, il più possibile semplici, limitatrici dei rischi che la finanza si assume e diffonde. La banca centrale deve potersi impegnare tanto contro inflazione e disoccupazione quanto nella vigilanza bancaria; va dotata di strumenti sia di mercato sia amministrativi; deve poterli manovrare con una discrezionalità ampia, che non degeneri nell’arbitrio. Infine — è cruciale — la politica deve tornare a farsi carico del governo dell’economia. Va dismessa l’idea semplicistica, diffusa dalle teorie economiche, severamente criticate nel libro, secondo cui basterebbero mercati autoreferenziali e una banca centrale che si limiti a regolare la quantità di moneta contro l’inflazione.