di Monica Guerzoni
I timori nello staff del premier. L’irritazione di Giorgetti per le «uscite» del M5S
Roma Alle dieci della sera, con il premier Giuseppe Conte impegnato a Bruxelles in una delicatissima missione sul destino della manovra, a Palazzo Chigi si affannano a derubricare il caso. La «manina» denunciata da Luigi Di Maio? Solo un «grandissimo equivoco», «una tempesta in un bicchiere d’acqua». Eppure, a giudicare dagli umori che filtrano dallo staff di Matteo Salvini, dagli uffici di Giancarlo Giorgetti e dalle stanze dove i tecnici della presidenza del Consiglio impazziscono da settimane per far quadrare i «numerini» delle promesse gialloverdi, la maggioranza è sull’orlo del collasso nervoso.
«Tra i due partiti c’è un clima di grande sospettosità e sfiducia assoluta, Conte dovrà metterci una pezza anche stavolta», sospira che è notte un collaboratore del presidente. Il quale però tornerà a Roma soltanto domani. Fino ad allora il testo della pace fiscale verrà congelato, in attesa che lo scontro tra pentastellati e leghisti si plachi e che i leader diano il via libera al provvedimento della discordia. «Basta stralciare quella parte», ha buttato lì a Porta a Porta il vicepremier, all’apparenza incurante del fatto che il testo in questione (articolo 1, comma 9) è uno dei cavalli di battaglia del Carroccio.
Negli stessi minuti, mentre le agenzie di stampa lanciavano le anticipazioni dal programma di Bruno Vespa, Matteo Salvini a Mosca cenava tranquillo con gli industriali: «Aspettiamo di leggere bene le notizie». Ma dietro l’apparenza la Lega era in tempesta, imbufalita per il tentativo del M5S di far passare Salvini come il garante degli evasori e il grande sponsor dei condoni. «Sulla pace fiscale sono stati fatti dei casini pazzeschi», sbuffava il sottosegretario Armando Siri, esasperato perché il Carroccio fatica a mantenere la promessa del saldo e stralcio per i contribuenti in difficoltà economica.
Non sarà dunque una passata di bianchetto a risolvere il caso, che sta mettendo a dura prova la tenuta della maggioranza. A far saltare i nervi a Di Maio sarebbe stata l’informazione che i tecnici del Tesoro avevano inviato «per via informale» al Quirinale un testo diverso da quello approvato in Consiglio dei ministri. Ma la versione dei comunicatori stellati non convince i leghisti, che vedono nella clamorosa denuncia un’altra picconata alla poltrona del ministro Tria.
A Palazzo Chigi la sparata di Di Maio ha portato un diffuso sconcerto e il timore che, quando la bolla di sapone sarà scoppiata, la figuraccia resterà agli atti. Raccontano che Giorgetti sia furioso con il vice pentastellato e non solo per la sfiducia nei suoi confronti, di cui Di Maio avrebbe parlato anche con il Quirinale. Il sottosegretario mal sopporta l’improvvisazione che vede in alcuni «big» M5S, la tendenza a sospettare di tutto e tutti e il perenne timore di prendere fregature dagli alleati. Per non dire dell’abitudine di denunciare i contrasti in tv, invece di affrontarli in quel di Palazzo Chigi.
«Nel testo c’è una sorta di scudo fiscale e una non punibilità per chi evade», ha accusato Di Maio, puntando il dito su una «manina» tecnica o politica che avrebbe cambiato il passaggio incriminato. «L’integrazione degli imponibili è ammessa nel limite di 100.000 euro per singola imposta e per periodo di imposta e comunque non oltre il 30% di quanto già dichiarato», è scritto al comma 1. Ma se il vicepremier ritiene di aver sventato un gigantesco condono — convinto che il contribuente possa integrare l’imponibile di 100 mila euro per ciascuna imposta — a Palazzo Chigi temono che nel M5S «abbiano qualche difficoltà a capire quello che leggono». Già, perché l’articolo 9 non sarebbe cambiato rispetto al testo che Conte aveva emendato a penna, di suo pugno, durante il Cdm.