Federigo Tozzi (1883-1921) guarda Siena con gli occhi di chi osserva uno spettacolo della natura. Gli elementi costruiti -case, mura, torri, palazzi, chiese- sono raccontati come paesaggio, costituiscono un tutt’uno con gli eventi meteorologici, le vegetazioni, si continuano nel movimento delle colline, nella variabile colorazione del cielo.
Mura e pomerio non segnano un confine tra città e campagna, ma una reciprocità nella quale egli concentra e formalizza il suo sentimento dello spazio senese. Da questo spazio nessuna delle sue opere prescinde: esso non è l’ambiente, non è la scena allestita ad accogliere una vicenda; esso è propriamente la situazione permanente, assoluta di Tozzi. È questo spazio che compone il racconto, e Bestie ne è forse la prova più esplicita, perché qui più che in ogni altra opera si rappresenta in equilibrio perfetto la naturalizzazione dell’urbano.
Del resto le pagine celebri dedicate -in Con gli occhi chiusi e in Tre Croci– alla veduta di Siena quale si offre dalla alta tolda di Camporegio giungono fino a cancellare la regola che pure sta alla base d’ogni struttura urbana, cioè il condizionamento che determinano nel connotare il volto di una città, le strade e le piazze per rapporto agli edifici.
«Non è possibile capire dove siano le vie; perché le case paiono separate l’una dall’altra da spacchi e da tagli quasi bizzarri, alla rinfusa». È la rappresentazione di un luogo impervio: strade che «si fermano; come se non sapessero dove andare»; piazze «ripide, affondate», «che dall’alto paiono buche»; i vicoli «simili a spaccature e a cretti enormi». «pendii diseguali», «il parapetto d’un abisso”. «Nei rialzi sembra che ci sia un parapiglia a mulinello, negli abbassamenti le case precipitano l’una addosso all’altra; come frane».
Qui le dinamiche architettoniche sono rappresentate come in un rilievo orografico, sono crepaccio, sono montagna discoscesa non lieve, non agevole da essere attraversata: una condizione rupestre ove la fatica del movimento necessita di una agilità psicologica tutta solipsistica, che rende guardinghi, poco consente la comunicazione e nega l’abbandono, la convivialità, la disponibilità fiduciosa verso l’altro.
Questa da Camporegio è una veduta che consente di leggere l’anatomia edilizia di Siena come proiettata in uno schermo, senza quella dolcezza che ne delinea il profilo quando la vista della città si offre dalla distanza delle colline. Ma è nel chiuso delle sue quinte interne che la città celebra in Tozzi la sua vera anima.
Nathaniel Hawthorne si era immaginato un abitante ideale per Siena come un «individuo cogitabondo e ritroso» che vi elegge la sua residenza e vi trascorre gli anni preda di una «cupa felicità», per quanto egli ritenesse «tremendo viverci senza una specifica indipendenza nella vita della propria mente».
La variante che Tozzi determina nel modello di Hawthorne è, se mai, che l’autonomia intellettuale non solo non garantisce una esenzione o una indennità dal peso comune, ma, anzi, accentua la sofferenza per quanto raffina la sensibilità.
Una scatola senza sole: la dimora in Siena è reclusione, un a-parte imposto dall’assenza di un interlocutore, che non trova il verso e l’oggetto del dialogo nel quale si credeva chiamato a proseguire un ruolo che si è ormai interrotto; vissuta la casa con il senso d’un ricovero come può essere il recupero abitativo di un monumento, come chi viva e muoia dentro le volte d’un Colosseo della mente.
Federigo Tozzi tocca in Cose un vertice di questa estatica mineralizzazione dell’abitare: «C’era un buco nel muro, e io credevo che un giorno mi ci avrebbero ficcato. E, allora, io cominciavo ad amare tutto il muro. E, poi, ci sono entrato e ci sono stato; e non mi vedeva più nessuno. Quando sono escito, non trovavo più le stesse persone; ed era troppo tardi perché io cominciassi a conoscerne altre. Quante volte, da allora, ho creduto che nei muri ci potesse essere qualcuno, che volesse escire fuori! Quante volte ho creduto che un cuore pieno di calcina secca avesse ancora un poco di forza, per ricordarsi di quando batteva con una giovinezza più grande di una città e di una campagna sparsa di paesi e villaggi!».