Ci sono autori che avrebbero il physique du rôle per partecipare alla tappa della loro vita letteraria andando in fuga e invece preferiscono correre da gregari. Quello del gregario letterario è un ruolo comodo, ma inutile e fine a se stesso, che ha come unico scopo la sopravvivenza in quel pantheon di autori che professano il culto della lusinga reciproca. Quel circoletto intriso di manierismo composto da scrittori militanti più impegnati a blandirsi vicendevolmente che a produrre degli scritti che abbiano un valore letterario. Uno scenario deprimente, fatto di recensioni entusiastiche sugli inserti culturali dei giornali mainstream, candidature ad anni alterni ai premi più in voga, applausi da claque al romanzo che si è aggiudicato la fascetta dell’estate, a cui, tempo un anno, farà seguito il film dell’amico o del fratello regista.
Il destino del gregario però, si sa, è quello di spianare la strada agli altri, rimanendo ai margini, di sudare senza mai tagliare il traguardo per primo. E così, anche in ambito letterario, si rischia di vivere da eterni secondi, di fare da sfondo ai successi altrui, di essere utilizzati come riempilista, di esistere come i primi dei non eletti, come vincitori mancati.
La sindrome del gregarismo ha mietuto diverse vittime in questi anni di dilagante pensiero unico, ma in tal sede, a guisa di esempio, vogliamo prendere in esame “il curioso caso di Teresa Ciabatti”.
Teresa Ciabatti, scrittrice e sceneggiatrice, nasce nel 1972 a Orbetello, e proprio i suoi natali da agiata provinciale fanno di lei un piccolo caso letterario. Con il romanzo che la rende nota al grande pubblico, La più amata – lucido materiale per una seduta psicoanalitica – brama la vittoria del Premio Strega nel 2017, è data come favorita, ma, all’ultimo chilometro di corsa, viene superata in volata da Paolo Cognetti. Gli “amici della domenica” allora non si rivelano poi così amici, le luci della ribalta dopo qualche mese di successo si spengono, e ha inizio la fase di gregariato letterario che la vede coinvolta.
Trascorrono quattro anni, e la Ciabatti non sembra più la Ciabatti, ha subito una trasformazione, sembra addomesticata. Da fiera selvatica a gatto persiano. Sono finiti i tempi della “persona cattiva”, dei suoi articoli arguti, mordaci, il suo spirito boulevardier ha ceduto il passo alla sobrietà, per non dire al piattume, alla noia, propinando ai suoi lettori – o ex tali – una sfilza di aridi articoli buonisti di promozione di giovani autori, esaltazione di underdogs ed eroine proletarie e di tagline trite e ritrite sulle donne: “le invisibili”, “le nuove autrici che tratteggiano figure coraggiose e combattive”, “ragazze senza tabù né vincoli”, “la formazione della coscienza come emancipazione femminile”. Teresa, ci sei? Sei davvero tu?
La Lady Macbeth della Maremma si è trasformata nella Fata madrina, dispensatrice di buone parole e cerimoniose riverenze, non è rimasta traccia della venefica Teresa, niente più verve, sfrontatezza, efferatezza, neanche nei suoi romanzi.
“La pressione del conformismo, che grava su ogni produttore, abbassa ulteriormente le sue esigenze verso se stesso. È il centro stesso dell’autodisciplina intellettuale che appare in procinto di dissolversi” scrive T.W. Adorno nel 1951, nel suo Minima Moralia – Meditazioni della vita offesa, e prosegue:
“Il rifiuto dell’andazzo dominante della cultura presuppone che si partecipi ad esso quanto basta per sentirne, per così dire, l’attrazione sulla propria pelle, ma che si siano tratte, d’altro canto, da questa partecipazione, le forze necessarie per liberarsene. […] La spinta intellettuale verso il basso non incontra più inibizioni, e tutta la sporcizia che una civiltà barbarica ha accumulato nell’individuo, la mezza cultura, la sciatteria, la familiarità sguaiata, la mancanza di stile, vengono a galla. Nella maggior parte dei casi, per giunta, questa tendenza si giustifica e si maschera come umanità, come la volontà di rendersi comprensibili agli altri, come esperienza del mondo e senso di responsabilità”.
Una riflessione che calza alla perfezione in un momento storico di indigestioni ideologiche e politically correct che hanno sulla letteratura un effetto cataclismatico, a discapito dello stile e di qualsiasi voce indipendente, fuori dal coro.
La metamorfosi della Ciabatti, la sua conversione al murgianesimo, il suo allineamento ai precetti della gauche caviar, a quello che Sartre apostrofava come «umanitarismo di provincia», hanno fatto perdere all’autrice toscana la cifra distintiva del suo stile, che quest’ultimo piaccia o meno. La perfidia della donna di provincia, che nei suoi primi libri è servita come strumento per attaccare – il padre, la famiglia, gli ex compagni di scuola pariolini – funge adesso da difesa, si è trasformata, in particolar modo nel suo ultimo romanzo, Sembrava bellezza, in simpatetica prova di partecipazione alla vita degli altri, in empatia calcolata.
Che fine ha fatto quella che ha metaforicamente incendiato la sua famiglia con un memoir con una forza che ricorda quella di Merry, la figlia dello svedese Levov in Pastorale americana? Quella che ha aperto l’album di famiglia per ridurlo in brandelli, destrutturandone l’immagine e la storia?
La Ciabatti di oggi pare essersi incarnata in uno dei personaggi dei suoi esordi, nella farsesca rappresentazione di una radical-chic, come quella interpretata da Laura Morante ne L’estate del mio primo bacio, film uscito nel 2006 per la regia di Virzì junior e di cui è sceneggiatrice, tratto dal suo primo romanzo, Adelmo, torna da me (Einaudi, 2002). Entrambe le opere irridono infatti al mondo bobo, in particolare a quella élite progressista della capitale che in estate si trasferisce in vacanza all’Argentario – gli Hampton di Roma nord, terra natia della Ciabatti – portando con sé in valigia la servitù filippina e le proprie nevrosi da amministratori di patrimoni familiari. Una caricatura feroce del gap sociale che intercorre fra cittadini e provinciali – “Povero caro Adelmo, ti trovi davanti una ragazza di Roma, ricca e bella, è naturale che tu, ragazzo povero di paese, ti intimidisci e ti chiudi in te” solo per citare alcune battute della protagonista, come anche “Pensavo che potesse essere divertente farsi una storia con un povero”, che a distanza di quindici anni verrebbero immediatamente etichettate come politicamente scorrette dagli champagne socialist, per dirla in maniera british.
Perché, se c’è una cosa da tributare alla Ciabatti, è l’aver magistralmente imparato dal suo faro letterario, Joyce Carol Oates, a raccontare la vita dei ricchi, ed il suo vero glam è tutto lì, nella narrazione di quelle vite che il lettore ama voyeuristicamente spiare dal buco della serratura. Poi, certo, la Ciabatti sta alla Oates come Alessandro Piperno – con il suo humour giudaico – sta a Philip Roth o a Saul Bellow, ma anche quella di “copiare” è un’arte e se ben esercitata nulla quaestio. Basti pensare ai continui refrain beckettiani di Sembrava bellezza: “Datemi un cigno!” ripete in maniera teatrale la protagonista, rimandando direttamente al “Dammi il cane!” ripetuto da Hamm in Finale di partita. Tale esercizio di stile le è infatti riuscito benissimo fino a che lo ha praticato in maniera impudente, priva di sensi di colpa, in pratica fino all’uscita de La più amata. Già il suo romanzo successivo, Matrigna, sembra scritto da una penna differente, non c’è traccia della Teresa canzonatoria, sembra scomparsa come i bambini de I giorni felici. Il disagio narrato nei suoi scritti successivi non è più freddo, distaccato, a tratti infido, disturbante, ma, come un miasma, inizia ad esalare i fumi avvelenati dall’empatia. Le sue parole non sono più affilate, non fanno male, sono innocue, anelano al curativo, all’immedesimazione con la madre inadeguata o la donna grassa, hanno subito una trasfigurazione, si sono allineate alle norme redazionali degli autori prodotti in serie dalle scuole di scrittura – si fa per dire – creativa.
Ma aver mutato pelle, cambiato i propri connotati intellettuali e letterari, aver promosso i propri romanzi dinanzi al pubblico fluido ed impegnato dei quartieri gentrificati, non è servito a nulla se non a condurre un’esistenza di gregariato letterario, auto-privandosi delle forze necessarie per contrastare quell’andazzo dominante della cultura citato da Adorno, per evitare la totale dissipazione della propria autodisciplina intellettuale. La pleiade della narrativa nostrana, dopo averle tributato onori sulla carta stampata per il nuovo romanzo, quest’anno, l’ha infatti nuovamente esclusa dallo Strega, senza neanche lasciarla accedere alla agognata cinquina finale.
Pertanto, che cosa direbbe oggi la ragazza della provincia grossetana con lo zainetto a forma di koala alla scrittrice impegnata nelle frequentazioni dei patinati bureaux d’esprit romani affollati da bas-bleu ed intellò? Forse la inciterebbe a battere i tacchi tre volte e tornare a casa, autocitandosi con un «Teresa, torna da me».