primo:regole chiare
Che architetti e costruttori reclamino un allentamento dei vincoli introdotti in Toscana dalla legge Marson, per altro appena modificata, in senso meno restrittivo dal Consiglio regionale, e minori rigidità da parte della soprintendenza è un fatto naturale. Una deregulation del settore è nei voti di chi opera nell’edilizia e difende i suoi legittimi interessi, che sono anche gli interessi di moltissimi lavoratori. Ma nessuno può pensare di tornare all’assenza di regole, o all’interpretazione diciamo così ondivaga, che per anni ha caratterizzato urbanistica e costruzioni anche a Firenze. Gli anni 50 e 60 hanno visto il volto della periferia cittadina stravolto dalla speculazione, con tanti villini in stile storicistico e persino alcune rare testimonianze del Liberty sacrificati per lasciare spazio ad anonimi caseggiati o deturpati da impudiche soprelevazioni. Ma nemmeno i decenni successivi sono stati immuni da responsabilità, con la demolizione dell’ex palazzo della Gil e il complesso dell’ex cinema Vittoria ristrutturato per fare spazio ad appartamenti, con scarso rispetto del disegno originale. Nel frattempo, però, ai fiorentini che avevano compiuto modeste modifiche all’interno delle abitazioni, o magari le avevano in buona fede ereditate dal venditore, veniva inflitta un’opinabile «tassa sul panorama». Il punto di equilibrio sta forse nel reclamare prima di tutto chiarezza normativa e omogeneità nelle interpretazioni della legge, una base a tutela di tutti.
L’incertezza del diritto scoraggia gli investitori e rischia di essere un freno allo sviluppo, oltre a creare pericolose occasioni per la creazione di scempi di vario genere.
La pluralità e a volte la conflittualità dei «decisori» — soprintendenze, Comuni, Regioni, nonché la stessa magistratura — costringono alla prudenza. D’altra parte ogni tentativo di governare il territorio senza tener conto dell’evoluzione storica è destinato a fallire. C’è stata un’epoca, dopo la fine della mezzadria, in cui ogni cambiamento di destinazione d’uso nelle campagne era osteggiato come una forma di speculazione: si imponeva la conservazione delle coloniche senza i coloni e dei fienili senza il bestiame. Solo più tardi è venuta l’epoca degli agriturismi, spesso finanziati con denaro pubblico.
Detto questo, è onesto riconoscere che deregulation non deve divenire sinonimo di sregolatezza, anche se spesso è stato proprio l’eccesso di regolamentazione in tutti i minimi dettagli a provocare l’effetto opposto. Dove costruttori e architetti hanno del tutto ragione è nell’invito alle autorità ad affrontare seriamente il problema degli spazi pubblici, specie quelli rimasti vuoti per un’improvvida politica di delocalizzazione. La lentezza decisionale e l’incuria rischiano di produrre nuove Sant’Orsola, soggette nel migliore dei casi all’incuria, nel peggiore a occupazioni abusive. Dal cuore della città, con l’ex Circolo Ufficiali di via degli Arazzieri, con annessa Palazzina Livia, al semicentro, con l’ex palazzo della Sip in via Masaccio, la lista sarebbe lunga. E pensare di risolvere i problemi «studentizzando», musealizzando, «ostellizzando» tutto, sarebbe un errore di cui l’intera città rischia di fare le spese. Anzi, in parte le sta già facendo.