La prima volta s’incontrano nel settembre del 1953. Biagio Marin lo descrive “magro, stempiato, molto riservato”. Poco più che trentenne, Pier Paolo Pasolini abitava già a Roma, con la madre, era già stato processato per atti osceni in luogo pubblico, sospeso dall’insegnamento, cacciato dal Pci, marcato con “il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde”. Era tutto dentro il dialetto, allora, Pasolini, lingua autentica, del candore e della ferocia, della terra e del rito, rispetto all’imbastito, bastardo, giudizioso, giudiziario ‘italiano’. Per Guanda, nel ’52, aveva costruito un’antologia sulla Poesia dialettale del Novecento, che, di fatto, scoprì un modo e un mondo, catalogò un genere, rivelò una generazione. Tra i poeti raccolti lì dentro, da Salvatore Di Giacomo a Trilussa, da Tonino Guerra a Giacomo Noventa, spiccava, appunto, Biagio Marin. Nato a Grado nel 1891, austroungarico, studi a Vienna, a Firenze, a Roma, pubblicava piccole placche, per amici. “Io a Pasolini devo molto”, scrive Marin nei suoi diari, di getto, arcuato dal dolore, qualche giorno dopo l’assassinio di PPP, “è stato lui a presentarmi come poeta a una critica che era troppo distratta e diversamente intonata, per dare bada a me”.
In effetti, da allora, Biagio Marin è stato eletto nell’empireo dei poeti – non solo in dialetto –; ha scritto tanto. “Essendo nella sostanza fuori dalla storia Marin, sempre eguale a se stesso, può tranquillamente continuare a scrivere i suoi due-tre ‘pezzi’ giornalieri (un po’ come i Lieder che Schubert vergava sui conti d’osteria), in una specie di rito e di quotidiana transazione con l’Eterno”, scrive di lui Pier Vincenzo Mengaldo. A proposito di eterno: a tratti Marin ha la saggezza di un presocratico, la sua poesia ha il valore di un petroglifo. Questi sono versi da Niente no xe passao, in traduzione italiana:
“E nulla mai muore
nel mondo:
uno solo, ma fondo,
è il corso delle ore.
La mutazione origina il canto;
non aver paura di sparire;
dura un attimo il giorno,
ma è eterno l’incanto”.
L’ultimo distico vale la pena calcarlo in originale: dura un atimo el dì/ ma xe eterno l’incanto. Il dialetto, forse, è lì dove è pianto e incanto, dove si slaccia l’incantesimo per sedare il dolore. In ogni caso, a Marin, pur riconoscente, la nota di Pasolini sulla sua poesia non piacque. “Minimo Pascoli dialettale mi vuol definire il Pasolini. Quanto al minimo è forse troppo spregiativo; quanto all’avvicinamento al Pascoli, è per lo meno discutibile”. Nella sua speculazione, Pasolini accosta Marin a Machado; Marin lo sconfigge, non ha mai letto Machado, e capisce di PPP una cosa autentica e sinistra, “ha cercato se stesso nei miei versi”. Pasolini – è il rischio del tremendo – vampirizza; scava con foia nei ‘suoi’ autori, vi si rispecchia, li esalta massacrandoli, spaccando lo specchio. L’amore va infranto, d’altronde.
La distanza tra Marin e Pasolini – che rinforza, paradossalmente, la stima reciproca – ha mistura d’abisso. Marin non sopporta l’ideologo marxista, il poeta impelagato nell’impegno, il ‘maledetto’ in posa, il moralista a orologeria (“PPP tu sei della stessa identica sostanza e non hai nessuna dignità morale per denunciare gli altri”). E lo scrive, con cruda evidenza, nel 1969:
“P.P. Pasolini si dice marxista, comunista e vive da borghese ed è avido di denaro, di benessere come ogni altro borghese. P.P. Pasolini vende al mercato dei borghesi il proprio ingegno. In lui non riscontro la vera grandezza… È la sua persona che a me sembra disarmonica, e, a volte, addirittura mi ripugna. È maledettamente italiano nel senso più antipatico. Non me lo sento affine”.
Marin non capisce la “mania sessuale” di Pasolini, non comprende neanche la sua poesia (“ho letto parecchi versi di Pasolini; qualcuno bello, e anche molto bello; del resto pezzi di bravura linguistica e retorica. Tanti sfoghi di malumore ideologico, tante prediche”). Eppure, quando Pier Paolo Pasolini muore e quel corpo dissolto, distrutto, desolato, notturno, nudo, deforme, indemoniato dai lividi, lascia spazio al corpus, pura opera della vita, Marin ne è trafitto. Al cospetto della canea dei giornali, del chiasso pubblico, delle grida degli amici e dei sedicenti tali, di fronte agli avvoltoi che si avvolgono nel corpo putrido del poeta, Marin ha un sussulto, “pensando a lui, ho scritto una decina di liriche. Non so se valgono. Ho voluto onorare la sua memoria”, scrive sul suo diario, l’8 novembre del 1975. Marin vuole cospargere di candele il corpo di Pasolini, marcato dal piscio delle iene, da chi lo ostenta come un santo, da chi lo dileggia come corruttore. Invia quel grumo di poesie a Scheiwiller una settimana dopo. In gennaio l’editore risponde: vuol farne un libro, marchiato All’Insegna del Pesce d’Oro, con un titolo che tuona, El critoleo del corpo fracassao. Litanie a la memorie de Pier Paolo Pasolini. Il titolo è tratto dall’ultimo verso di una delle poesie di Marin, che in italiano suona così: “Poi, la rivolta:/ la notte cupa ancora ascolta,/ nel deserto di un prato,/ lo scricchiolio/ del corpo fracassato”. Biagio Marin aveva salutato Pasolini a Casarsa, il giorno del funerale, “la giornata era bella, solare… in una cappelletta trecentesca era esposta la casa chiusa che raccoglie i resti pietosi del grande poeta e del grande folle che è stato il caro fine Pier Paolo”.
Il testo edito allora da Scheiwiller torna ora per Quodlibet, a cura di Ivan Crico, con lo stesso titolo. In appendice sono pubblicati alcuni “estratti dai diari inediti” di Marin, per merito di Pericle Camuffo:la zona dolente, alta, aspra del libro. Narrano il patimento privato di Marin intorno alla morte di Pasolini, una specie di buco nero che dilata le contraddizioni fino all’insopportabile, ferita che snatura in scandalo, invalicato squarcio. “La sua pederastia è stata la ragione della sua rovina”, scrive Marin, il 3 novembre del 1975. E poi: “La vita sua era preziosa per tutti, era una ricchezza comune. L’abbiamo perduta. E in così malo modo”; “Mi ha trattato sempre con rispetto e affetto, pur sapendo che io avevo limiti da piccolo marginale, e che ero lontano dal suo marxismo e dalla sua pederastia, che gli è costata la vita”; “A me sembra molto maggiore di un Montale, di un Ungaretti. Era più vivo di loro. La sua pederastia gli è costata la vita, e ha adombrato la sua opera”; “C’erano in lui due poli, molto contrastanti. La sua tragica fine, ne è stata il risultato; ma anche la liberazione dal contrasto”.
Marin tende a un’armonia impossibile se misurata da sarto sull’‘anormale’ Pasolini: come si fa a invitare a festa il Minotauro intimandogli il rispetto delle buone norme? “Ha scritto troppo, ha voluto troppo, è stato un rivoluzionario che ha voluto abbattere e sostituire troppe cose del nostro mondo. Molte sue opere non sosterranno l’usura del tempo; ma la sua azione rivoluzionaria lascerà il segno in tutta la nostra così torbida vita”, scrive l’11 dicembre del ’75, e infine, a mo’ di compendio, di epigrafe,
“Pier Paolo Pasolini era un grande intellettuale; io sono solo una animucola di provincia. Pier Paolo Pasolini aveva in sé una vitalità, una forza di lavoro, una forza creativa, che io non saprei neanche sognare”.
Su la linea del canto semo nûi: sulla linea del canto siamo nudi. Pasolini muore il 2 novembre; Biagio Marin conclude il suo canzoniere in tredici poesie il 12 novembre. Tutto va dedicato ai morti ed è il dialetto la lingua veritiera della litania, pianto che non dissecca, che non piomba gli andati nel ricordo – grigi spettri per lamenti da salotto, nel limbo degli album – ma ne vivifica il lascito, a odore di pietra. Infine, ecco, nel canto conta la nudità, l’atto impuro, lo spudorato per purezza, perfino al cospetto della morte e di chi vi fa tenda, intorno.