Giulio Carlo Argan vide per la prima volta Roma nel 1928. Era sceso in treno nella Capitale da Torino, insieme al padre. Aveva diciannove anni. Il viaggio era il regalo per il conseguimento della maturità classica. Il «tono dimesso e un po’ fuori moda» della città, così come «il clima autunnale delizioso», lo fece subito innamorare: «pensai che se Roma era una città dove anche gli stranieri si trovano come a casa propria, era giusto che fosse la capitale, la città di tutti».
È DA POCO USCITO IN LIBRERIA, ripubblicato per Edizioni di Comunità, Un’idea di Roma, libro-dialogo con Giulio Carlo Argan (pp. 188, euro 12), originariamente proposto nel 1978 da Editori Riuniti. Si tratta di una celebre intervista di Mino Monicelli – giornalista dell’Europeo e del Giorno, nonché fratello del più famoso Mario, regista – ad Argan, allora sindaco della capitale da due anni.
Si parla tanto, oggi, della presunta ingovernabilità di Roma, ma non deve essere stato facile governarla alla fine degli anni Settanta. Basti pensare che fu proprio Argan il sindaco della città durante i 55 giorni del caso Moro: «fare il sindaco della Capitale in quegli anni di piombo mi affaticò e sgomentò: episodi di terrorismo, sequestro Moro, fuga di Kappler, ogni tanto un morto, le bombe fasciste in Campidoglio… Cercai di compiere il mio dovere, poi la fatica e l’ansia prevalsero sul mio stato di salute. Ora, guardandola retrospettivamente, quell’esperienza non mi pare così negativa; la mia giunta di sinistra, nonostante le difficoltà, qualcosa fece per questa straordinaria e infelice città» (in G.C. Argan, Parlando con Argan, a cura di Rossana Bossaglia, Illisso 1992).
ARGAN FU SINDACO di Roma per soli tre anni: rassegnò le dimissioni il 27 settembre del 1979. Troppo pesante il clima politico generale, troppo fragile la sua salute. Eppure, sarà proprio il suo breve mandato, insieme a quello successivo, altrettanto breve, di Petroselli, a lasciare una traccia profonda nella vita pubblica della città: dalla infrastrutturazione delle periferie alla salvaguardia del Parco dei Fori («o i monumenti o le macchine!»); senza dimenticare l’invenzione dell’Estate romana da parte del suo giovanissimo assessore alla cultura, Renato Nicolini: una geniale riappropriazione estiva degli spazi pubblici della città, che sarà poi emulata in tutta Europa nei decenni successivi.
Un’idea di Roma ci permette di ritornare allo snodo storico di quegli anni, mostrandoci anzitutto Argan, nella sua veste inconsueta di sindaco, lui, storico dell’arte marxista di fama internazionale, catapultato, quasi involontariamente, a governare gli ingranaggi del potere capitolino. E poi Roma, la capitale, dove Argan si è trasferito nel 1931 da Torino e dove vive ormai da più di quarant’anni. Città profondamente amata («non saprei più vivere né lavorare altrove»), studiata a fondo, tutta da re-immaginare perché stupenda, ma offesa; e soprattutto in lotta, del resto proprio come oggi, con uno Stato che la occupa senza valorizzarla e senza neppure proteggerla dagli assalti di una rendita fondiaria selvaggia, che ha già cannibalizzato – siamo alla fine degli anni Settanta – buona parte del suo enorme territorio, ben oltre il raccordo, tra l’Agro e il mare.
Argan è stato il primo sindaco comunista della storia della capitale; ma è stato anche il primo storico dell’arte a salire al Campidoglio e quindi il primo studioso a poter mettere alla prova del governo urbano studi teorici e amministrazione pubblica. Nel suo progetto per Roma convergono la formazione crociana, che conferirà al suo pensiero un’attitudine antidogmatica; e il suo marxismo critico, per cui studiare storia dell’arte significherà osservarla sempre all’interno della società, senza indulgere in volgari teorie della riflessione, ma ritracciando pazientemente i fili che legano rappresentazioni e politica. In particolare, è al binomio arte e città che Argan dedica una parte cospicua delle sue ricerche scientifiche.
Quando diventerà sindaco, contribuirà a progettare una mostra che resta tuttora un classico nella storia dell’urbanistica italiana: Roma interrotta. L’esposizione apre nell’agosto del 1978, con un allestimento di Piero Sartogo ai Mercati Traianei e si iscrive nella serie di mostre organizzate dall’associazione Incontri Internazionali d’Arte; sarà la prima dedicata all’urbanistica.
LA RASSEGNA fa involontariamente eco alla doppia temporalità del momento storico, sospeso fra crisi radicale dello Stato e simultanea apertura di un inaspettato spiraglio immaginativo. Argan ne sostiene il progetto e scriverà un breve testo per il catalogo – che è stato ripubblicato nel 2014 in occasione del nuovo allestimento per la Biennale di Venezia curata da Betsky. Del resto, l’impianto multidisciplinare, così come l’idea curatoriale che la sostiene, sono in profondo dialogo con la impostazione teorica di Argan. Agli architetti invitati a partecipare, Sartogo chiede di immaginare la Capitale a partire dalla mappa incisa da Giambattista Nolli nel 1748, saltando volontariamente due secoli di trasformazioni urbanistiche incoerenti e di selvaggia speculazione fondiaria.
È un esercizio di storia controfattuale, che richiede di mettere tra parentesi la realtà presente per non farsi sovrastare dalla sua disfatta, liberando però, nello stesso tempo, il potere trasformativo dell’immaginazione. Roma va riprogettata quasi da capo: questo è l’auspicio della mostra. E per farlo, la strada da percorrere, soprattutto in una città così antica e metamorfica, è quella di studiarne attentamente il passato, rivisitando i progetti interrotti, i bivi storici dove furono ipotizzate altre ipotesi di trasformazione, senza essere poi seguite. Non immaginazione libera, dunque, ma connubio di creatività ed intelligenza politica.
QUESTI DUE ASPETTI si ritrovano anche nella biografia intellettuale di Argan, ricostruita dalle domande di Monicelli che riesce, sapientemente, a tracciare un filo tra due fasi della vita apparentemente irrelate: quella di professore e studioso d’arte, e quella di sindaco della capitale. Il suo lascito è, infatti, quello di un sapere politico nel quale si combinano cultura umanistica, scienza e, soprattutto, volontà di servizio, ed è, per questa ragione, molto distante da un’idea di politica come esclusiva competenza tecnica, idea oggi prepotentemente tornata egemonica.
Nel libro passano in rassegna alcuni mali noti della capitale: anzitutto la crescita urbana selvaggia a cui va assolutamente posto freno; e l’unico strumento per farlo – mai realizzato – è che «tutto il suolo della città diventi demaniale, com’è demaniale il suolo delle altri grandi capitali europee». E poi la cultura urbana di una metropoli da sempre cosmopolita, ma non ancora internazionale; che in quegli anni lotta con lo Stato per avere una seconda università – quando, secondo Argan, ne dovrebbe avere almeno altre quattro o cinque; e per avere un nuovo Auditorium, che, come ben sappiamo, sarà costruito solo vent’anni dopo.
MONICELLI INCALZA Argan su alcuni luoghi comuni – oggi più che mai diffusi – su Roma capitale mancata, perché città allo sbando, disfunzionale e per questo non riconosciuta nel suo ruolo dalle altre città italiane. Argan, che come abbiamo visto la governa in anni difficilissimi, risponde piccato: chi l’ha schiacciata in questa condizione è la classe industriale nordica; ma attenzione: senza la mediazione di Roma il paese si spacca. Si pensi quello che si vuole di questa città, ma resta, esattamente come sosteneva Cavour un secolo prima, l’unica realtà urbana cosmopolita d’Italia, l’unica città del nostro Paese la cui storia e la cui importanza supera infinitamente il perimetro circoscritto dei suoi confini municipali.