Il critico letterario di origine ebraica è morto a Cambridge a 90 anni Separava la letteratura dall’etica, rivalutando autori controversi
di Wlodek Goldkorn
C’è un midrash , un commento ebraico alle Sacre scritture che George Steiner amava ripetere: «Perché Dio creò Adamo? Perché voleva avere accanto qualcuno che gli raccontasse delle storie». Il mondo, per il grande critico letterario, intellettuale polimorfo, tra i più influenti degli ultimi decenni, autore di centinaia di saggi e due dozzine di libri, scomparso ieri a Cambridge a 90 anni poteva infatti essere racchiuso in un testo. Poliglotta, parlava, leggeva e insegnava in quattro lingue: l’inglese, il francese, il tedesco e l’italiano. Nato a Neuilly-sur-Seine (il 23 aprile 1929) figlio di due ebrei originari di quello che fu l’Impero austroungarico, naturalizzato americano, ateo, ma conscio del fatto che senza la trascendenza la vita non ha molto senso, Steiner pensava che la parola e la narrazione costituissero l’essenza del nostro essere umani, la scintilla divina insita in ognuno di noi e che ci distingue dagli altri animali. Era un umanista, un uomo rinascimentale per la vastità delle letture e degli interessi (nella stessa frase poteva citare Omero, Platone, Dante e Kafka), avversario di ogni decostruzionismo, profondamente legato invece all’idea della centralità e della singolarità dell’esperienza umana, convinto addirittura che fosse il “genio” a fare la differenza tra un vero scrittore e un raccontatore di storie. E tuttavia Steiner non era ottimista. Non era affatto fiducioso nelle capacità degli uomini di costruire un futuro migliore. Anzi, si rendeva conto del fatto che il bello non sempre coincide con il buono.
Nelle conversazioni citava spesso il caso Céline, per segnalare un paradosso: il più grande scrittore francese del Novecento professava idee antisemite ed era amico dei nazisti. Ma l’elenco di casi simili era assai più lungo. La riflessione su come l’etica e l’estetica possano non coincidere, derivava direttamente dall’esperienza ebraica di Steiner, in particolare dalla sua riflessione sulla Shoah e soprattutto su come si è arrivati a quello che un altro studioso, ebreo tedesco israeliano, lo storico Dan Diner, ha definito come “la catastrofe della civiltà”. Per Steiner si trattava di un pezzo della sua biografia. La raccontava volentieri a chi volesse ascoltarlo. Dunque, il padre, già negli anni Venti a Vienna, intuisce che un certo Adolf Hitler può essere pericoloso. Di conseguenza trasferisce la famiglia a Parigi. Nel 1940 si trova per conto del governo francese a New York. Là si imbatte (gli States sono ancora un Paese neutrale) in un suo conoscente tedesco diventato funzionario nazista, che gli dice: tra poco prenderemo Parigi e saranno tempi duri per voi. Steiner papà fa immediatamente venire tutta la famiglia a New York. E così gli Steiner hanno la vita salva, e diventano cittadini americani.
Anni dopo, il grande intellettuale si sarebbe chiesto come mai, nonostante tutti sapessero come sarebbe andata a finire, si trattava comunque di qualcosa di inimmaginabile e inenarrabile. Inenarrabile davvero? Aveva davvero ragione Adorno quando disse: «Dopo Auschwitz niente poesia?». Secondo Steiner, la risposta a questo interrogativo era ambivalente. Era impossibile scrivere di Auschwitz, e tuttavia ognuno aveva il diritto di farlo, anche come invenzione, come romanzo. Ma la verità vera, l’ultima e la più penetrante, sono riusciti a svelarla e narrarla, diceva, solo due autori: Primo Levi e Paul Celan. Ambedue, sottolineava, ne hanno pagato un prezzo altissimo: il suicidio. E comunque, per chi volesse approfondire il tema si consiglia in particolare il saggio Linguaggio e silenzio , che non ha perso niente della sua attualità.
Prima di diventare grande studioso della letteratura Steiner, aveva lavorato come giornalista per l’ Economist .
A Princeton, dove cominciò la sua carriera accademica (contrastata dai colleghi che lo vedevano troppo poco specialista) che l’avrebbe portato a Ginevra, Oxford e Cambridge, è stato chiamato per caso; in conseguenza di un’intervista e nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Questo mestiere non lo abbandonò mai del tutto. Per 27 anni ha lavorato per il New Yorker . Non rimase tuttavia in America a insegnare, tornò invece in Europa perché il padre gli disse che il Vecchio Continente senza ebrei sarebbe stata una vittoria postuma di Hitler. E alla figura di Hitler Steiner ha dedicato uno dei suoi libri più controversi, Il Processo di San Cristobal . Vi si racconta il processo, finto ovviamente, intentato dagli agenti del Mossad israeliano al Führer da loro catturato in America Latina. Il dittatore tedesco a sua difesa sostiene che l’idea della purezza della razza e del popolo eletto non l’ha inventata lui, ma in larga misura l’ha presa in prestito dalle sue vittime. Steiner voleva semplicemente, e attraverso un romanzo, riflettere su come un linguaggio nato e adoperato per secoli al fin del bene possa essere invece utilizzato a scopi del tutto nichilistici. Ma ha urtato la sensibilità di molti. E infatti nel mondo ebraico è rimasto un personaggio discusso. Se non altro perché si proclamava ebreo diasporista, negava cioè la centralità dello Stato ebraico e dell’esperienza sionista nel vissuto del proprio popolo. Era molto critico nei confronti della politica e dello stesso uso di violenza da parte dello Stato d’Israele. Ripeteva che la sua patria fosse ovunque ci sia una macchina da scrivere. Ebraismo insomma come testo, invenzione e interpretazione. Per lui la vera patria, se ne aveva una, era l’Europa, con la sua architettura e i suoi modi di vita. Negli ultimissimi anni non vedeva più nessuno. Era disilluso, il mondo che gli stava intorno non gli piaceva. Soffriva per il riemergere dell’ antisemitismo e la Brexit era stata per lui un grande dolore.
Che cosa resta del suo insegnamento? Senz’altro la lezione di Nessuna passione spenta , dove sulla scia di Walter Benjamin (il suo vero modello di intellettuale) fa capire che senza la domanda sull’esistenza di Dio, senza insomma l’indagine quasi teologica sulle ragioni ultime della nostra vita, l’arte, qualunque arte, è priva di significato. Resta anche un libretto “minore”, I libri che non ho scritto . Dove elenca tutti quelli che avrebbe voluto invece comporre, spiega perché i monoglotti sono poveri umanamente e sentimentalmente, e quanto è bello fare l’amore in quattro lingue diverse: le sue.