GUSTAVO ZAGREBELSKY
Il grande giurista che sopra le regole metteva la persona
NEL 1968, se la memoria non m’inganna, si tenne a Bologna nella sede della casa editrice il Mulino un incontro tra giovani e giovanissimi giuristi promosso da quell’infaticabile cercatore di idee nuove e di studiosi innovatori che fu Giovanni Evangelisti. Stefano Rodotà, che aveva 35 anni ed era già considerato da tutti i presenti un punto di riferimento e di rinnovamento, fece una relazione inquadrata in quel tempo, un tempo che si pensava potesse essere, se non epocale, almeno fecondo di novità. La sua relazione si sarebbe potuta intitolare: «Sullo stato presente e sui compiti futuri dei giuristi e della scienza giuridica». Non so se sia stata mai pubblicata. C’ero anch’io, ma non temiate ch’io voglia parlare di qualcosa come “Io e Rodotà”. Questo accenno serve solo a introdurre un altro ricordo: Evangelisti che, a incontro concluso, disse ad alcuni dei presenti: attorno a quel giovanotto voglio costruire qualcosa come una comunità di giuristi che guardino avanti, che rinnovino la cultura giuridica, la pongano al servizio non di vuoti concetti o di poteri ormai screditati: in una parola, una visione del diritto capace di contribuire alla costruzione di una società rinnovata.Stefano doveva occupare il posto centrale di un mosaico. Queste, naturalmente, sono parole mie, non i concetti; ma “quel giovanotto” è testuale. Che cosa accadde allora? Sempre sotto l’egida del Mulino, si promossero alcuni incontri a Tirrenia, comune di Pisa, noto per l’architettura e l’urbanistica fascista e per le dune di sabbia sul mare, di cui non si approfittò perché, dati i prezzi degli alberghi, era sempre bassa stagione e il tempo proibitivo. Stefano stava al centro. Attorno, ricordo tra gli altri Alessandro Pizzorusso, Sabino Cassese, Natalino Irti, Franco Ledda, Franco Levi, Franco Merusi, Valerio Onida, Franco Bassanini, Giorgio Berti e un già allora spumeggiante Giuliano Amato. Si formò quello che allora si definì il “Gruppo
di Tirrenia”, tra persone unite da una vaga aspirazione riformatrice del nostro mondo: se non una corazzata, certo un potente incrociatore del diritto. Gli incontri proseguirono a Venezia (auspice Feliciano Benvenuti), Napoli, Cortona. I più giovani tenevano particolarmente a essere invitati a partecipare, come a una sorta di promozione sul campo e come viatico per future carriere accademiche. Evidentemente, però, le riforme non sono, e non furono allora, un collante sufficiente a tenere insieme tanti brillanti intelletti: diciamo pure, tante prime donne. Molti di quelli che ho nominato non ci sono più. Quelli che restano sono andati ciascuno per la propria strada e il progetto iniziale è andato perduto. Non del tutto, però.
Nel 1969 fu fondata una rivista, Politica del diritto, che raccoglieva se non il programma di Tirrenia — un vero e proprio documento con questo nome non è mai stato partorito — ma certo lo spirito, l’impegno e le speranze. Questa rivista, alla quale collaborarono giuristi di cui ho già fatto il nome e altri a lor compagni, suscitò reazioni nel sereno mondo dell’accademia tradizionale, più disposta a privilegiare la quiete sulle novità che possono portare scompigli. Si ricorderà che, quasi come reazione alle teste calde di Politica del diritto, nel 1976 fu fondata da illustri giuristi rappresentativi dell’establishment, Giovanni Cassandro, Vezio Crisafulli e Aldo Maria Sandulli, un’altra rivista dal tono più rassicurante, Diritto e società. Questo per dire dello spirito di novità e delle reazioni suscitate. Politica del diritto esiste tuttora e Stefano fino all’ultimo ne è stato il direttore. Se mi soffermo su questa pubblicazione è perché il suo progetto scientifico, al di là della sua attuale diffusione, corrispose e tuttora corrisponde a una tendenza e a una esigenza ancora presente che Stefano Rodotà ha rappresentato e interpretato come meglio non si sarebbe potuto, per quasi mezzo secolo. Si trattava di fare del diritto e della sua cultura una forza efficiente di trasformazione della politica e della società, nel segno e nel solco che i principi della Costituzione prefigurano. A questo fine, il mondo stretto del diritto avrebbe dovuto aprirsi e guardare il vasto mondo, un mondo che, allora, stava cambiando. Politica del diritto non era certo una proposta di asservimento del diritto alla politica e ai suoi attori. Non proponeva affatto che i giuristi diventassero forze collaterali di questo o di quel partito. Non voleva politicizzare il diritto in questo senso. Semmai aspirava a giuridificare la politica, cioè a inquadrare quest’ultima in categorie giuridiche adeguate alle esigenze dei tempi, esigenze che erano di rinnovamento, di espansione della democrazia, di valorizzazione di diritti e di uguaglianza. In breve, era anche una proposta di etica per gli studiosi del diritto: né soltanto avvocati e nemmeno solo consulenti, ma soprattutto attori nella sfera del dibattito pubblico con gli strumenti del diritto.
Se guardiamo alle idee e ai propositi di quel tempo giovanile, dobbiamo constatare che molto s’è perso per strada, che poco è rimasto e non molto di quelle speranze ha fatto scuola. L’energia originaria si è dispersa in tanti rivoli. La cultura giuridica rappresentata da quel progetto e da quel gruppo di giovani e meno giovani di belle speranze non ha resistito alle tante tentazioni che, come da sempre, propongono ai giuristi funzioni ancillari di interessi particolari, interessi che dispongono di numerosi e molto persuasivi strumenti seduttivi.
Non così Stefano Rodotà. In questo “ non così” possiamo dire essere racchiuso il segreto d’una certa aura di autorevolezza che lo circondava, riconosciuta anche da coloro che ne hanno contestato la figura pubblica, talora non temendo di dar di sé prove di trivialità e prove d’ignoranza. Tutto nella sua attività scientifica: libri, articoli, conferenze, interviste, commenti giornalistici, promozione — come si dice — di eventi ( soprattutto il Festival del diritto di Piacenza, di cui lamentiamo l’interruzione); tutto, dicevo, testimonia una coerenza che non è solo un aspetto della sua personalità ma è anche l’adesione a una certa idea del diritto e del giurista. Il diritto non esiste se i giuristi non esitano a farne usi occasionali che finiscono con il coincidere con l’interesse personale. Se non esiste qualcosa come “ i giuristi”, rappresentativi di un’unità se non di risultato almeno d’intenti, il diritto è distrutto e, invece di contribuire alla convivenza, alimenta la discordia. Quanto ho detto adesso si vede facilmente quando da “ i giuristi” passiamo a quella categoria particolare che sono “ i costituzionalisti”. Che cosa è la Costituzione se ogni questione di diritto costituzionale alimenta le opinioni più diverse in contrasto le une con le altre e motivate da finalità divergenti? La conseguenza è una sola: la Costituzione sparisce e nella lotta politica, che dovrebbe trovarvi la sua regola, prevalgono gli interessi politici di breve durata. Chiunque, per quasi qualsiasi buona o cattiva azione, trova il parere del costituzionalista, talora il “parere pro veritate”, che gli conviene. Non so perché l’essere “costituzionalisti” goda d’un certo plusvalore presso i formatori della pubblica opinione. Stefano Rodotà era spesso definito tale ma, tutte le volte che poteva, reagiva con un piccolo sorriso sardonico: non costituzionalista, non sum dignus sembrava sottintendere con un poco d’ironia, ma civilista. Insomma, sembrava volesse marcare una distanza e non confondersi rispetto a un mondo che, da questi anni, è andato disgregandosi e contribuendo alla confusione.
Ma i confini delle discipline accademiche hanno un senso per chi si interroga a partire non dai dogmi e dai concetti, ma dalla funzione del diritto nella vita civile? Il percorso intellettuale di Stefano Rodotà è particolarmente significativo. È stato giurista al di sopra delle classificazioni disciplinari. Aggiungo: giurista non totalizzante, non fanatico delle cosiddette “regole”. Sapeva benissimo che al di là del diritto c’è molto altro che guida più o meno degnamente le condotte umane: cultura, etica, interessi. C’è, del 2006, un suo libro che mi pare dovrebbe essere letto e meditato di più di quanto lo sia stato. S’intitola La vita e le regole. Tra diritto e non diritto. Non tratta soltanto degli aspetti giuridici di ciò che da qualche anno si usa definire “la nuda vita”; tratta dei limiti del diritto, dei pericoli del guardare il mondo solo con occhi del giurista, dell’illusione di credere che il mondo stia in piedi perché c’è il diritto e ci sono i giuristi. I suoi studi sul concetto di “persona” dicono quanto è sbagliato considerare la persona solo come “persona giuridica”, cioè come fascio, punto d’imputazione di diritti e di doveri, secondo la concezione kelseniana. Fatta questa delimitazione delle pretese del diritto, tra ciò che rientra nel suo ambito, è oggi impossibile costruire steccati. Stefano è stato un illustre civilista ma, evidentemente, non soltanto. Consultiamo i temi delle sue opere maggiori, seguendone i percorsi.
All’inizio stanno due libri su temi del diritto civile che più “classici” non potrebbero essere, la responsabilità civile ( Il problema della responsabilità civile del 1964) e il contratto ( Le fonti d’integrazione del contratto, del 1969). Chi consultasse questi primi scritti vi troverebbe una traccia che avrebbe portato lontano: l’impostazione non formalistica che collega il diritto non al diritto, cioè con sé stesso in un circolo vizioso, ma al diritto in funzione della sua — potremmo dire — “giustezza” rispetto alle aspettative sociali. Del 1967 è lo scritto che mette in rapporto l’oggetto dei suoi studi con il contesto culturale in cui si posa, si è posato in passa- to e si vorrebbe che si posasse in futuro, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile. Di quegli anni è il libro forse più famoso, Il terribile diritto (1981) più volte ripubblicato fino all’edizione del 2013 che porta un’aggiunta nel titolo: Studi sulla proprietà privata e i beni comuni. Questa riedizione- integrazione è una testimonianza della continuità del suo impegno scientifico e civile. L’idea, anzi la categoria ricorrente come oggetto polemico in tutti i suoi scritti è la “logica proprietaria” o, potremmo dire, rapace, la logica che fagocita tutto e tutti nei meccanismi del mercato e mercifica ogni bene mettendolo a disposizione della predazione dei più forti e sottraendolo ai deboli. Contro questa forza distruttiva delle relazioni tra gli esseri umani stanno innumerevoli scritti e interventi nelle più diverse sedi. Mi limito a ricordare Logica proprietaria tra schemi ricostruttivi e interessi reali del 1978. Ma la critica alla logica proprietaria e, in fin dei conti, all’egoismo dei potenti che schiaccia gli impotenti dividendo la società in due parti è il filo conduttore di tutti gli scritti, direi di tutto il suo impegno a favore di un’etica dei diritti. Di diritti e libertà, Stefano si confessò “innamorato” nel suo intervento del 2004 alle Lezioni Bobbio (Einaudi, 2006) e, in effetti, come tutti gli innamorati che non sanno staccarsi dal loro amore, le occasioni per ritornare a esso, approfondire, denunciarne i tradimenti sono state numerosissime. Non è possibile, in questa sede, nemmeno farne un elenco. La summa del suo pensiero è raccolta nel fortunatissimo volume Il diritto di avere diritti del 2012 che già nel titolo — una citazione da Hannah Arendt la quale si riferiva alla condizione degli ebrei d’Europa sradicati, privati d’ogni diritto e esposti a qualsiasi impune violenza — si volge a considerare la condizione di coloro, sempre più numerosi nel tempo attuale, che dalla concentrazione dei capitali, dall’economia e dalla tecnologia alleate in una corsa frenetica, dalla depredazione dei territori e dai disastri ecologici, sono privati della base stessa da cui poter reclamare una qualsiasi protezione: gli sradicati della terra. Non sempre, dunque, i diritti producono frutti benigni. I diritti dei potenti, quando entrano in conflitto con la condizione degli impotenti, producono effetti perversi. Diventano volano per accrescere le ingiustizie e le distanze sociali nell’economia, nella conoscenza, nella partecipazione politica. Possono trasformarsi da strumenti della libertà e della liberazione in strumenti dell’oppressione. Ciò non solo per la prepotenza degli uomini ma anche per lo sviluppo distorto di tecnologie capaci di massificare l’umanità, di trasformarla in una grande arena dell’ubbidienza dominata dall’inganno, di aprire la stagione del “post-umano” in cui l’uomo entrerà in competizione con le macchine pensanti da lui stesso pensate e sarà soggetto — beneficato o maledetto — alle ingegnerie genetiche. Nell’ultima fase delle sue riflessioni, Stefano si è aperto a temi che sono al confine tra la filosofia e il diritto, trattando di persona umana, dignità, solidarietà, verità, autodeterminazione, perfino di amore ( Diritto d’amore, 2014). Questi entrano nei titoli di suoi brevi saggi e nelle diverse parti del
Diritto di avere diritti, di cui occorrerebbe leggere con attenzione il Prologo. Vi troviamo testimoniata ancora una volta la fede nei diritti, ma in modo sorprendentemente problematico per un “innamorato”. Proietta un’ombra inquietante il timore circa le disfunzioni sociali ch’essi possono provocare già oggi e ancor di più nel prossimo futuro quando essi entrano nel grande affare della mercificazione generalizzata di tutti i beni della vita e perfino degli esseri umani come tali. Si potrebbe dire che i diritti, pilastri della civiltà che abbiamo concepito, tra tante cose buone portano in sé non poche tossine e che queste stanno crescendo e occorre richiamare su di esse la nostra attenzione. In un discorso del 1987 Norberto Bobbio aveva tracciato un bilancio della storia dei diritti umani e, avventurandosi sorprendentemente (per uno come lui) sul terreno infido e controverso del “progresso morale” dell’umanità, aveva sostenuto che almeno sotto un aspetto si poteva vedere un segno positivo: «La crescente importanza data nei dibattiti internazionali, tra uomini di cultura e politici, in convegni di studio e in conferenze di governi, al problema del riconoscimento dei diritti dell’uomo». Rodotà certamente condivideva questo giudizio. Solo in base a tale condivisione si comprende la quantità di energie intellettuali ch’egli ha dedicato a questo tema. Ma, forse, nel bilancio finale si è insinuata la domanda: progresso sì, ma verso che cosa? Per questo, occorre ora concentrare l’attenzione sulle degenerazioni, non per tornare indietro come sognano coloro che rimpiangono tempi andati che non ritorneranno mai più. Rodotà non era affatto un nostalgico. Il suo sguardo è stato sempre rivolto al futuro, è stato un precursore. I suoi scritti sulle tecniche informatiche, sulla “rete”, fino alla “rivoluzione digitale” non si contano. Già nel 1973, quasi cinquant’anni fa, quando ancora nessuno ne parlava, aveva pubblicato un testo dal titolo piuttosto démodé, addirittura archeologico, che fa pensare alle macchine che allora leggevano le schede perforate ed ora farebbero sorridere qualunque tecnico informatico alle prime armi: Elaboratori elettronici e controllo sociale. In breve tempo, questo tema, collegato ai diritti della privacy e alla formazione dei grandi imperi informatici capaci non solo di abbattere le barriere che proteggono la vita privata, ma anche di controllare e ricattare i governi, sarebbe diventato cruciale e Rodotà in Italia e non solo in Italia, sarebbe diventato uno dei maggiori esperti in materia.
Se ho indugiato su queste citazioni e su questi ricordi è perché essi testimoniano di una fedeltà e di una coerenza che, al di là dei bilanci sull’opera scientifica che certamente sarà adeguatamente studiata in sede accademica, sono ciò che con maggiore vivezza mi si presenta alla mente a poco più di tre mesi dalla scomparsa di Stefano, il nostro compagno che abbiamo ammirato prima e rimpiangiamo ora e che possiamo avere ancora tra noi nel ricordo e nello studio di ciò che ci ha lasciato.
Questa mia testimonianza, pur nella sua brevità, sarebbe gravemente incompleta se non menzionassi il suo rigoroso contributo alla difesa e alla valorizzazione della Costituzione, anche qui in coerenza col programma di quel gruppetto di giovani giuristi che alla fine degli anni ’60 si ritrovarono per farne il programma d’una politica del diritto. Quanti dibattiti, quanti articoli di giornale e quante interviste, quanta generosità nell’aderire a iniziative di associazioni e circoli culturali. È stato detto che Rodotà e tanti altri con lui avevano idealizzato la Costituzione come “la più bella del mondo”, sciocca espressione usata per accusare i suoi difensori di vuoto idealismo, di estetismo costituzionale cieco di fronte a cose concrete come le esigenze di semplificazione del sistema politico, di velocità del decidere, di “governabilità”. Non è stato affatto così: si trattava di un’altra visione istituzionale che aveva a cuore la difesa di una certa idea di democrazia partecipativa perfettamente in linea con la difesa dei diritti. Questa visione per anni ha alimentato idee anticostituzionali, ispirate a quella che si potrebbe dire la “democrazia decidente” che è (se così si può ancora chiamare) democrazia “discendente”. Non si sarebbe trattato, dunque, di ingegneria costituzionale indirizzata al miglioramento delle istituzioni ma di uno stravolgimento, anzi di un rovesciamento oligarchico. Sappiamo che cosa è l’oligarchia. Ce lo dicono i classici: il governo dei privilegiati, i diritti dei più forti, dei più ricchi. Questo è spiegato in un libretto che Stefano ha scritto in occasione del referendum del 4 dicembre, Democrazia e costituzione. Perché dire no: uno scritto militante a favore della Costituzione, dei diritti di tutti, di quella che si chiama la “cittadinanza attiva” dei cittadini.
Anche in questo ultimo impegno pubblico vediamo la sua coerenza, associata alla costante denuncia del degrado crescente della classe politica e della corruzione dilagante. La retorica delle riforme è stata il tentativo fraudolento di dirottare l’indignazione sulle istituzioni per liberarsi delle responsabilità proprie e, addirittura, per dotarsi di regole costituzionali protettive che avrebbero reso ancora più difficile di quanto già sia il contrasto ai mali della nostra vita pubblica. Rodotà ha denunciato tutto questo in un altro libro in cui egli non ha esitato a darsi del moralista ( Elogio del moralista, 2013), ben sapendo che questa parola gli avrebbe attirato la critica, anzi l’ironia, dei realisti cinici che la sanno lunga e si fanno beffe dell’etica in politica. Ciò che ha impedito a Rodotà di assurgere a cariche anche più importanti di quelle pur importanti che ricoprì è precisamente la sua indisponibilità a partecipare ai giri, ai circoli di quel tipo di realismo.
Per queste e per tante altre ragioni ci troviamo qui a ricordare il nostro amico e a dolerci della sua scomparsa, a dolerci d’un vuoto nel mosaico in cui amiamo collocare noi stessi. Ma c’è molto d’altro che difficilmente potremmo esprimere in pubblico e più facilmente conserveremo dentro di noi. Riempiremo a lungo il vuoto ricordando spesso e con rimpianto l’immagine austera di Stefano, un’immagine che creava attorno a lui un’aura di rispetto. E ricorderemo i modi affabili, il volto scavato e pensieroso e anche, purtroppo, sofferente degli ultimi mesi in cui l’abbiamo avuto con noi, sempre fino all’ultimo, generoso del suo tempo, della sua cultura e della sua passione.