Povera Patria, cantava Battiato, di quell’Italia dantesca, serva, nave senza nocchiere in gran tempesta. Quel luogo di meretricio – intellettuale – in cui il più importante scrittore francese contemporaneo, o meglio, il più importante scrittore contemporaneo, viene accolto, sommessamente, da un modesto romanziere di provincia, per il conferimento d’un futile, ennesimo, premio di narrativa.
Il rendez-vouz fra la coppia di scrittori peggio assortita della letteratura globale, quello fra Michel Houellebecq e Marco Missiroli – a scriverli insieme, i due nomi, ci si aspetta quasi che la tastiera possa implodere da un secondo all’altro – ha avuto luogo, qualche giorno addietro, in occasione del Salone del Libro di Torino, kermesse-roccaforte dell’establishment letterario nostrano, contraddistinto dalla stucchevole cortigianeria del suo sottobosco.
Troppo complicato trovare uno scrittore, un giornalista, qualcuno con un po’ più di pelo sullo stomaco del prosatore riminese, capace di non incappare nella sudditanza psicologica provocata dalla mole morale della personalità houellebecquiana e di non declassare un’intervista – rarissima nel suo genere – a un atto di sottomissione?
Direttamente dal suolo parigino atterra Michel Houellebecq – attesissimo dal pubblico bovino del SalTo, costituito perlopiù dalla tipologia umana che nei suoi stessi romanzi viene presa sonoramente a schiaffi – intabarrato in un Barbour grigio che dà l’idea di esalare fumi di tabacco, whisky d’annata e umori vari, il volto rugoso, lo sguardo nichilista assente a sé stesso, dall’indifferenza meursaultiana. Non ha preteso cachet, si dice, ma solo una stanza in cui poter fumare liberamente, pena la mancata partecipazione all’evento.
L’intellettuale francese, imprevedibile nella sua esuberanza mista a pacatezza, che nei suoi libri ha denunciato il ripugnante stato di decomposizione dell’Europa occidentale, il progressivo scolorimento della sua identità, eviscerato le ipocrisie del liberalismo economico e sessuale, l’avvizzimento delle relazioni sentimentali contemporanee, viene accolto dall’anfitrione del caso, dotato del physique d’un seminarista, il quale, come se stesse rivolgendosi ad un anziano in una casa di riposo, esordisce con un «Come sta?».
Il pavido approccio del novellista romagnolo non impedisce comunque al grande penseur di esprimersi su temi più alti, l’amore, Dio, Dostoevskij, Schopenhauer, i supermercati – feticcio houellebecquiano presente fin dalle sue prime poesie – il sesso.
Ed è qui, nel mezzo di quel balletto di banalità e riverenze rivolte al dissacrante autore francese durante l’intervista, che Missiroli, provocatorio come un catechista al corso prematrimoniale, sottolinea la presenza di “troppo sesso” nei romanzi di Houellebecq, tema che dovrebbe essere centrale anche in quelli del narratore-intervistatore, che avrebbe però bisogno di un ripasso dell’argomento. Quest’ultimo, infatti, nei suoi romanzi, noti soprattutto al grande pubblico delle casalinghe di Voghera annoiate e refoulé, regala scene erotiche artefatte, minuziosamente costruite, innaturali, burocratiche, corredate da nudità eleganti, disegnate col compasso, geometrie sentimentali meno scostumate d’una canzonetta di Renato Zero, meno scollacciate di quelle di un Harmony, in cui ogni licenziosità è tragicamente licenziata.
Farebbe bene, l’autore riminese, a rileggere l’opera omnia di Houellebecq, poesie comprese, da cui deborda invece una mescolanza di carne deturpata e pulsante, erotismo declinante e romanticismo feroce e perverso. Opere in cui palpitano, in maniera vibrante, esaltazione sentimentale e ossessione sessuale che – secondo il loro autore – hanno un’origine comune, derivando entrambe da un parziale oblio del proprio ego, un campo nel quale è difficile realizzarsi senza perdersi, come scrive egli stesso in Piattaforma.
Ma ogni società ha il romanziere che si merita, quello che ne rispecchia i costumi.
“L’osceno è il tumulto privato che ognuno ha, e che i liberi vivono. Si chiama esistere e a volte diventa sentimento” scrive Missiroli, stucchevolmente, in Atti osceni in luogo privato, degradando l’osceno a qualcosa di tangibile, di esistente, di vivo.
Per Houellebecq, al contrario, l’osceno è smarrimento dal vivere, un concetto molto più vicino alla definizione che soleva darne Carmelo Bene, un altrove, qualcosa che occupa uno spazio fuori dalla scena, dall’esistenza stessa, è un’isola, una piattaforma.
Ed ancora, in Fedeltà, un romanzo strapieno di cliché, Missiroli banalizza il tradimento, lo dequalifica a necessità fisiologica, squallida evasione, la superficiale risposta a un’insoddisfazione, “Con lui aveva intuito che l’infedeltà poteva significare fedeltà verso se stessa”. È davvero tutto qui?
Scrive invece lo Houellebecq poeta:
“Rotolando sul materasso
Della nostra reciproca fedeltà
Non sono più lì completamente,
Non sento alcun’urgenza”
donando al medesimo concetto profondità, dignità, insofferenza. Ed ancora, in uno dei suoi componimenti:
“Si geme di sofferenza o di piacere
Il grido è comunque una sintesi.
L’essenziale alla fine è non dormire;
Talvolta ci si sfinisce, talvolta ci si bacia”.
Missiroli, in sostanza, è l’uomo galante, raffinato, il bellimbusto che le donne opzionerebbero volentieri per una cena, mentre Houellebecq, con la sua aura da depravato – trovate uno scrittore francese che non sembri tale – è quello per cui opterebbero per il dopocena. Alle fedeli, candide, pudenda di Marco, le signore lettrici, preferirebbero comunque l’infedele virilità avariata da vecchio tombeur de femmes di Michel. Houellebecq è il tipo che potrebbe trascorrere le vacanze tanto in un monastero a meditare quanto a praticare turismo sessuale nel sud-est asiatico, Missiroli da l’idea che la cosa più trasgressiva che si sia concesso sia forse un bagno di notte, in adamitica nudità, nelle acque dell’Adriatico.
Al di là delle dissertazioni di carattere stolido e pecoreccio, bisogna però autoinfliggersi un colpo di realismo, guardare lucidamente al panorama letterario contemporaneo locale e rendersi conto che lo stesso è deprimente in quanto specchio d’una società appassita, fatiscente, un contesto in cui scorgere personalità della levatura di Houellebecq o quantomeno capaci di tenergli degnamente testa – un cervello alla Tommaso Labranca, per dire – risulta pressoché impossibile, un miraggio, e allora, in circostanze come quelle appena descritte, non resta che chiudere gli occhi e affidare le chiavi di casa nostra al Missiroli di turno. A quest’ultimo va comunque tributata una lode, giacché è riuscito, con il pretesto del Premio Mondello, a portare a casa una rarissima intervista con un pezzo di storia della letteratura, evento principale per cui, un domani, verrà ricordato. A volte, la Grande Occasione – come la chiamerebbe La Capria – non è un libro mediocre pubblicato con un grande editore, bensì un’ora – d’amore letterario – con il Céline dei nostri tempi. E questo, Missiroli, lo ha compreso fin troppo bene. Chapeau.
E se letteratura italiana, in un misto di protervia e cecità, continua ad infliggersi queste piccole morti, non ci resta che assistere – con la stessa acquolina in bocca d’un avvoltoio che pregusta una carcassa ferina – ai suoi autodafé, all’evolvere del suo narcisismo in cupio dissolvi, in attesa di un totale crollo della sua stessa, vuota, struttura portante. Quella letteratura che continua a confezionare prodotti in serie, dalla medesima scrittura stereotipata, priva di sensualità, di tensione erotica, dritta ma non eretta, lineare fin troppo, che non è riuscita a colmare a livello narrativo quel bisogno di certezza razionale rincorsa dall’uomo moderno, quel bisogno al quale, secondo Houellebecq, l’Occidente ha sacrificato tutto: la sua religione, la sua felicità, le sue speranze, in sostanza ha sacrificato la sua stessa vita, come dallo stesso esplicato ne Le particelle elementari.
In fondo, basta porsi una banale domanda: qual è l’autore italiano contemporaneo più conosciuto e tradotto all’estero? Un nom de plume, Elena Ferrante, e tanto basta a definire la novellistica italiana, una beffa, un inganno, una barzelletta che è sufficiente menzionare per porre l’accento sulle ineguaglianze narrative rispetto ad altri paesi.
Scrive invece Houellebecq, in Estensione del dominio della lotta:
“Su un muro della stazione Sèvres-Babylone ho visto un graffito: «Dio ha voluto ineguaglianze, non ingiustizie». Mi sono chiesto chi fosse quella persona così bene informata sui propositi di Dio”.
Ma che Missiroli intervisti Michel Houellebecq – ci venga concesso – suona come un’ingiustizia bella e buona. Povera Patria.