«Sono tornato bambinaccio»

L’intervista Alessandro Benvenuti parla di «Panico ma rosa», spettacolo nato dal diario scritto durante il lockdown. «Un lavoro poetico, comico e catastrofico».

Il 5 luglio debutto a San Miniato (Pi)

 

«Panico lo è stato per tutti. Una pandemia non può non dare un senso di panico. Ma per me – premette Alessandro Benvenuti – è stato anche un po’ rosa. Nel senso che ho vissuto il lockdown in chiave romantica, con mia moglie Chiara. E non pericolosa. Se fossi impazzito sarebbe stato un panico giallo, se mi fossi depresso nero, o peggio rosso sangue. Invece è stato rosa». L’ex Giancattivo il coronavirus lo ha avuto, «anche se da asintomatico: mai avuto più di 36 e mezzo di temperatura, niente tosse né spossatezza. Anche dal punto di vista sanitario panico sì, ma rosa». Durante la quarantena, vissuta a Roma, si è messo a scrivere un diario. Ne è nato uno spettacolo, Panico ma rosa appunto. «Devo ammetter però di aver preso in prestito queste parole dal nome di una ditta di abiti per giovani di molti anni, in quel caso era un acronimo dei tre soci. Uno dei quali un mio vecchissimo e grande amico». La prima lettura-studio andrà in scena al Festival del Teatro di San Miniato (Pi) domenica 5 luglio alle 21.30. La prima vera e propria andrà in scena il 5 settembre in Friuli.

Curioso il sottotitolo, Benvenuti: «Dal diario di un non intubabile». Cosa significa?

«Ho 70 anni ormai, e ho pensato che nel momento peggiore della pandemia, se ci fosse stata carenza di respiratori e avessero dovuto decidere se salvare me o un ragazzo, non avrebbero salvato questo vecchietto. Morale della favola: era meglio se non lo pigliavo, questo virus. Ma m’è andata bene. E poi anche perché io appartengo a quei fortunati che hanno potuto smettere di lavorare per qualche mese senza avere il problema di mettere da mangiare a tavola. Insomma, lo spettacolo avrei anche potuto intitolarlo “Botta di… fondoschiena”».

E nel frattempo scriveva il suo diario.

«Con mia figlia Carlotta che mi spronava e ogni giorno scattava foto multiple pertinenti a quello che mi succedeva. Mi sono chiuso in casa l’8 marzo e mi sono fatto tutta la quarantena ordinata e disciplinata. Solo con mia moglie i primi 20 giorni. Poi ci ha raggiunto Carlotta. Lei è la mia grafica e fotografa, mi cura l’immagine e i social. Sono venute fuori 160 pagine per 57 giorni di diario, fino all’inizio della fase due».

Perché si è messo a scrivere?

«Sono un grande camminatore e camminare è la cosa che più mi è mancata in quei mesi. E siccome scrivere è un po’ come camminarsi dentro, ho scelto di camminarmi dentro tutti i giorni. Affrontare pensieri e raccontare visioni, pormi problemi e lasciarmi andare a questa improvvisa libertà di tempo. Era una promessa fatta al pubblico. Ma senza bilanci, solo un’osservazione delle cose particolari della vita che ti capitano: fughe nella memoria, cronache di giornata, sogni. Non sono solo uno che “fa” tante cose ma uno che è “fatto” dalle cose che mette in atto, e d’improvviso mi sono trovato a non dover far nulla. Con ore libere, da un lato, ma prigioniere da un altro. Con il destino non più nelle mie mani ma in quelle dei Dpcm che ogni settimana il governo emanava».

Altri hanno preferito strade diverse. Sul web magari.

«Odio il teatro in streaming, zoom e le dirette video. Mi lasciano una sensazione di irrealtà totale. Per continuare a esistere come artista l’unica cosa che potevo fare era raccontare per la prima volta in vita mia un po’ di intimità».

Cosa ha scoperto di se stesso?

«Che potevo tornare bambino, anzi bambinaccio. Un po’ più Lucignolo, un po’ più discolo. Durante il lockdown ho avuto il tempo di rivisitare l’infanzia. Che nel mio caso ha significato fare il chierichetto. Sarà stato uno choc talmente grosso questo evento pandemico che evidentemente l’inconscio aveva bisogno di rifiorire durante la notte».

Come lo possiamo definire questo diario?

«Con tre aggettivi. Il primo è “poetico”, perché quando dopo 32 anni di vita con una donna ti ritrovi tutto il giorno tutti i giorni con lei, o diventi un assassino o vivi questa solitudine a due in maniera dolce. Ho scoperto che il nostro sentimento è ancora forte e persiste. Ma anche “comico”, perché sono essenzialmente un comico, è il mio modo filosofico di interpretare la vita. E infine “catastrofico”, perché sempre di epidemia si parla».

Lanciamo anche uno sguardo al dopo covid: da uomo di teatro, cosa si aspetta?

«Che il teatro subisca un grosso scossone, per mancanza di reti di protezione. Soprattutto i teatri privati saranno nei guai. Io sono fortunato a dirigere teatri pubblici, a Siena e a Roma. A Siena il comune crede in noi e nella cultura. Alla fine credo che il teatro si risolleverà: finché esisterà l’uomo esisteranno teatro, musica e danza, sono le arti più antiche. Ma varrà solo per chi riuscirà a sopravvivere. Gli altri moriranno. Siamo di fronte a una selezione naturale del mondo dello spettacolo».

 

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