Stessa sorte sta toccando al Reddito e alla Pensione di Cittadinanza. Il primo gennaio 2019, benché il Rei fosse in vigore da dodici mesi, vi erano ancora 4.917.000 italiani in povertà assoluta, cioè – secondo la Treccani – privi dei “mezzi indispensabili alla mera sussistenza dell’individuo”. Il 60% di questi poveri non erano in grado di lavorare perché minori o inabili. Il restante 40% era composto da disoccupati e occupati sottopagati. Oggi 2,5 milioni di poveri fruiscono del reddito o della pensione di cittadinanza: sono ancora poveri, ma non più poveri assoluti. Tra loro vi sono 200mila invalidi e 400mila minori.
Raggiungere i poveri e assisterli è un’operazione difficilissima: in Germania, dopo dieci anni dall’introduzione del reddito di cittadinanza, sono riusciti a scovare solo il 60% dei poveri. In Italia, dopo i primi nove mesi del Reddito e della pensione di cittadinanza, già 2,5 milioni di destinatari (pari al 50% del totale) ricevevano il beneficio.
I media si sono soffermati con cinica e compiaciuta insistenza sui pochi casi di furbetti che sono riusciti a truffare l’Inps ottenendo il beneficio senza averne i requisiti. Formigli ha dedicato un’ora intera di Piazzapulita al caso di una signora della famiglia Spada che è riuscita ad avere dal Comune i documenti necessari per percepire il reddito. Ma non ha detto che, su 1.532.000 domande presentate da altrettanti nuclei familiari, l’Inps è riuscita a esaminarne la quasi totalità a tempo di record, scartandone scrupolosamente il 36%. Nella stessa trasmissione Alan Friedman, dimostrando una completa ignoranza in materia, ha sostenuto che il Rei di Gentiloni era molto meglio del Reddito di cittadinanza. Ebbene, nei suoi primi sette mesi il Rei è riuscito a raggiungere solo 1,4 milioni di persone erogando per ogni nucleo familiare un importo medio mensile di 293 euro. Invece il Reddito di cittadinanza, nei suoi primi sette mesi, ha raggiunto 2,4 milioni di persone con un importo medio di 481 euro. È difficile comprendere il motivo per cui Formigli, che pure dirige una trasmissione attenta ai problemi sociali, sia impegnato in una crociata denigratoria nei confronti del Reddito di cittadinanza.
Un’accoglienza altrettanto sbilenca da parte dei media è ora riservata ai dati Istat che certificano una leggera risalita del tasso di occupazione. Negli anni compresi tra il 2001 e il 2017 la nostra politica occupazionale è stata a dir poco demenziale. Nel 2001 il nostro tasso di occupazione era del 57,1%. Si misero all’opera parlamentari del Pd e socialisti pentiti, subdolamente neo-liberisti e tra il 2001 e il 2017 dettero mano a una polveriera normativa: fu varata la legge Biagi, furono istituiti, tolti e rimessi i voucher, fu ridotto il cuneo fiscale, fu abolito l’articolo 18, fu azzerata l’Irap, il solo Jobs Act costò 16,7 miliardi. Valanghe di soldi mollati alle imprese, centinaia di migliaia di ore di scioperi, conflitti d’ogni genere furono investiti per trasformare l’Italia nel Paese europeo con maggiore flessibilità contrattuale nel settore privato, con crescente flessibilità nel settore pubblico, con un costo complessivo del lavoro attestato intorno alla media europea. Ebbene, in questi diciassette anni l’occupazione è salita dal 57,1 al 58,4. Molto più dell’occupazione è aumentata la componente precaria della forza lavoro. Ichino, uno degli artefici di questa impresa, ebbe la faccia tosta di pubblicare il libro Il ritorno del lavoro.
Dietro questa spirale floscia vi era la presunzione che, per debellare la povertà, basta la crescita. Prima Reagan e poi Bush padre misero in atto le idee degli economisti Kuznets e Laffer secondo cui occorre abbassare le tasse ai ricchi sia per incoraggiarli a investire sia per scoraggiarli a evadere il fisco; poi la loro maggiore ricchezza sarebbe automaticamente sgocciolata fino ad alleviare la condizione dei poveri (trickle-down). Invece la storia ha dimostrato che, senza welfare, il numero dei poveri aumenta anche là dove cresce la ricchezza, perché chi la sa produrre non la sa distribuire, e viceversa. Dunque, se si vuole evitare che la povertà si traduca in conflittualità e che la conflittualità tracimi in violenza, occorre uno stato sociale: per la tranquillità dei ricchi, oltre che per la sopravvivenza dei poveri.