E’ piacevole, intelligente e ben fotografato da Vittorio Storaro “Rifkin’s Festival”, il film n. 50 di Allen, inedito negli Usa e in uscita in Italia. Racconta la crisi, personale e coniugale, di un intellettuale newyorchese tipicissimo (lui stesso, è ovvio, interpretato con arguzia da Wallace Shawn) in trasferta spagnola e nel mondo del cinema, sempre un po’ vacuo. Di notte gli appaiono Fellini, Bergman e Truffaut, di giorno si scontra con gli errori della sua vita. Ma sempre col sorriso sulle labbra
Mort Rifkin (Wallace Shawn), protagonista di Rifkin’s Festival, l’ultimo film di Woody Allen ora in uscita in sala in Italia – ma tuttora inedito negli Stati Uniti – è soprannominato “il Grinch” e naturalmente rappresenta in qualche modo un alter ego del suo autore. Intellettuale newyorchese tipico, anzi tipicissimo, ha deciso di allontanarsi dalla sua amata città per accompagnare la moglie Sue (Gina Gershon) in Spagna, a San Sebastian. L’occasione è il celebre festival cinematografico che si tiene ogni anno, a fine estate, nella città basca. Sue è impegnatissima come addetta stampa al fianco di un giovane e antipatico regista francese (Louis Garrel), mentre Mort non ha proprio nulla da fare, se non ripensare con nostalgia all’epoca in cui insegnava cinema, sprofondare sempre più nell’ipocondria e interrogarsi con angoscia crescente sulla propria (in)capacità di scrivere finalmente il grande romanzo che da sempre sogna di pubblicare.
Tra un cocktail e una proiezione, una passeggiata vista mare e la visita a un’affascinante cardiologa (Elena Anaya), chiamata a curare il mal di cuore di cui il protagonista ha cominciato d’improvviso a soffrire, la commedia umana si dipana, con qualche risvolto simil-romantico, ma più che altro all’insegna della disillusione e del tradimento. Segreti e bugie prendono inevitabilmente il sopravvento, e il matrimonio di Mort e Sue finisce per andare a rotoli.
Una trama semplice, che non riserva particolari sorprese, un canovaccio dal sapore assai convenzionale, soprattutto per chi conosce il cinema di Woody Allen. E allora perché vedere l’ennesimo film (il cinquantesimo, per la precisione) del regista newyorchese? Prima di tutto, per la gustosa galleria di personaggi che Allen ci regala, cesellando con un bisturi intinto di veleno una serie di figure decisamente grottesche e al tempo stesso assai realistiche: dal presuntuoso regista francese capace di dirsi convinto di poter risolvere con il proprio film il conflitto tra israeliani e palestinesi – niente di meno! – all’artista spagnolo tutto genio e sregolatezza interpretato da uno straripante Sergi Lopez, dallo scrittore in patetica crisi d’ispirazione al critico frustrato e incattivito.
Il meglio del film lo si trova però nella magnifica carrellata di omaggi cinefili sotto forma di sogni, in cui il protagonista dà forma a paure e desideri rivivendo le scene clou di film celeberrimi, da Otto e mezzo di Fellini a Jules e Jim di Truffaut, da Fino all’ultimo respiro di Godard all’Angelo sterminatore di Buñuel, fino a Il settimo sigillo di Bergman. Proprio quest’ultima fantasia cinefila, protagonista Christoph Waltz nei panni della Morte che gioca a scacchi in riva al mare, vale da solo il prezzo del biglietto. Perché il sardonico sorriso di Waltz rende irresistibile questa raffigurazione della Nera Mietitrice trasformata in una bonaria dispensatrice di consigli preziosi (tra dieta bilanciata e ginnastica quotidiana) per garantirsi una vita più lunga possibile.
L’impressione è che Allen avesse proprio voglia di togliersi qualche sassolino dalla scarpa e abbia deciso di farlo nel modo per lui più congeniale, mescolando realtà e sogno, cinema e psicoanalisi, e affidando al suo alter ego, il bravissimo Wallace Shawn (attore spesso presente nella filmografia di Allen, anche se di solito non al centro della scena), il compito di tirare qualche bilancio e rilanciare qualche palla in campo avversario, con un pizzico di acidità e tantissima ironia. Un divertissement colto e cinefilo dedicato a chi apprezza Woody Allen, ma soprattutto a chi ama i grandi classici del cinema europeo, meravigliosamente reinventati anche grazie alla fotografia di Vittorio Storaro.