Gli aerei colpiscono in continuazione: i più piccoli sono morti o vivono in rifugi sotterranei. Insieme a Ghouta orientale, la provincia di Idlib è l’unica zona rimasta nelle mani dei ribelli anti Assad.
HAZANO (Siria). Sono stati pesantemente bersagliati anche i campi di grano e gli uliveti, che per via delle tante esplosioni sembrano adesso arati dalle dita di un gigante. E non c’è collina o radura della fertile terra del nord-est della Siria che non sia butterata di crateri, né borgo o malconcio agglomerato che non porti una ferita di guerra: un minareto scapitozzato, una carreggiata sfondata o un ponte abbattuto. Nel cielo carico di pioggia, i caccia del regime di Damasco volano sfrontatamente bassi. Quelli russi, invece, li vedi appena perché sfrecciavo velocissimi e mai sotto i cinquemila metri. “Ma gli aerei di Putin sganciano razzi molto più potenti e molto più precisi”, sostiene Khaled Kobani, comandante di quel che resta dell’Esercito libero siriano nella regione di Idlib, zona che come la Ghouta orientale è ancora nelle mani dell’opposizione e che, come il sobborgo a est della capitale, è anch’essa bombardata senza tregua dall’aviazione del regime. “Ci sono giorni in cui lanciano tanti di quei raid che non riusciamo neanche a comporre il quadro delle zone colpite né a contare le vittime”, aggiunge il comandante, che ha 56 anni, la faccia da mastino e mani spesse come costate di bue.
L’abbominio comincia soltanto a una decina di chilometri dal confine turco. Sulle strade di campagna che percorriamo a bordo della sua vecchia Toyota incrociamo ovunque edifici sventrati, ospedali distrutti, interi villaggi cancellati. “E’ la stessa la strategia messa atto ad Aleppo, che consiste nel disintegrare un luogo vomitando tonnellate di bombe sui civili, anche a casaccio, ma con devastante intensità. Ora, se una volta sconfitti gli aleppini poterono rifugiarsi in questa regione, adesso alle forze d’opposizione al regime, siano esse jihadiste o come noi più moderate, non resta nessun luogo dove riparare. Se qualcuno non interverrà, riusciranno entro poco tempo a ucciderci tutti o a farci impazzire di paura perché l’aviazione del regime e quella di Mosca hanno il dominio assoluto di questi cieli”.
Come nella Ghouta dove, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani – ong anti-Assad basata a Londra, che monitora in tempo reale il conflitto – il regime ha ucciso negli ultimi 7 giorni più di 500 civili, tra cui 123 bambini, anche qui la situazione umanitaria è catastrofica. Manca il pane, e mancano i farmaci per curare i feriti che continuano ad arrivare nei pochi ospedali risparmiati dai raid. Per evitare che l’ecatombe prosegua mancano, soprattutto, i rifugi anti-aerei. Quando è funestata da bombardamenti a tappeto come qui accade da mesi, una popolazione è costretta a cambiare il suo modo di vivere. Molte attività scompaiono del tutto, a vantaggio di altre. “Non ci sono, per esempio, più forni perché per troppo tempo le code di chi andava a comprare il pane sono state il bersaglio prediletto dei jet di Damasco. Perciò adesso ognuno è costretto a panificare dentro casa sua, con tutte le difficoltà che ciò comporta. Inoltre, per evitare che il fumo diventi un richiamo per gli aerei, è consentito farlo soltanto dopo il tramonto”, dice ancora il comandante Kobani.
Per le strade dei villaggi, così come nelle campagne, incontriamo solo adulti. Questa è diventata una terra senza bambini. Infatti, o vivono rinchiusi in qualche cantina o sono morti. “I miei figli non escono da settimane, tanto a scuola non possono andare perché l’edificio che l’ospitava è stato centrato da un razzo l’estate scorsa”, racconta il comandante. Lo stesso vale per i contadini che fino a quando scoppiò la guerra, nel 2011, rendevano la regione di Idlib il granaio della Siria. Oggi, nemmeno la fame più nera può spingerli a lavorare nei campi. Troppo pericoloso. Qui è moribonda perfino quell’economia di guerra che in altri contesti s’avvantaggia dei combattimenti e della mancanza di approvvigionamenti. Quando arrivano le bombole di gas o i bidoni di benzina, sono immediatamente sequestrati dai soldati, che a Idlib sono per lo più membri di gruppi islamisti. Lo stesso accade ai sacchi di fagioli o di farina. Poi, una volta riscaldate le loro basi, riempiti i serbatoi delle loro auto e placati i loro appetiti, ciò che avanza è consegnato ai civili. “Devo ammettere che lo fanno con un certo rigore, e anche con generosità. A scopi propagandistici? Può darsi, ma intanto sono loro che appena possono organizzano distribuzioni di cibo”, spiega il comandante.
In questa regione i gruppi jihadisti sono presenti dal 2012, e da allora hanno cominciato a rosicchiare il terreno nelle mani dell’Esercito libero siriano fino a comandare, oggi, quasi ovunque. La loro densità è molto aumentata nell’autunno-inverno 2016, quando affluirono in massa dai quartieri orientali di Aleppo dove erano stati espugnati dalle truppe lealiste, spalleggiate oltre che dai Sukhoi russi anche dai Pasdaran iraniani e dagli Hezbollah libanesi. “Diciamo che tra l’Esercito libero siriano e i meno tagliagole dei jihadisti s’è creata una necessaria solidarietà mantenuta da continui patti di non belligeranza. Nella nostra lunga guerra di liberazione, abbiamo anche combattuto sullo stesso fronte. Qui dobbiamo soprattutto a lavorare assieme per difenderci dai razzi e dai barili d’esplosivo che ci piovono addosso. E cerchiamo di proteggere i civili da questi spietati bombardamenti. Ci riusciamo piuttosto bene, perché se ti brucia la casa, l’ultima cosa a cui pensi è diffondere la tua ideologia o la tua religione”.
Quando gli chiediamo dei finanziamenti di Washington all’Esercito libero siriano, con voce aspra Kobani risponde che sono stati totalmente tagliati: “Il che spiega il sopravvento della Brigata al-Nusra e di altre formazioni islamiste. Molti dei miei uomini sono passati nelle loro fila non tanto perché lì ricevono una paga migliore, ma più semplicemente perché l’Esercito libero siriano non ha più munizioni per combattere”. Quando invece accenniamo all’incapacità della comunità internazionale di fermare il conflitto, Kobani sembra prima sorridere con un’ombra di mestizia ma poi i suoi occhi s’accendono d’ira. Per lui c’è un solo colpevole: “Barack Obama, che nell’agosto 2012 minacciò chi avesse varcato la linea rossa dell’uso di armi chimiche, per poi rimanere con le mani in mano quando il presidente Assad cominciò ad adoperarle un po’ ovunque. Sarebbe bastata una sola bomba americana e questa guerra sarebbe finita”.
Come ultima tappa ci porta a vedere una piccola struttura sanitaria dov’erano ricoverati fino al 4 febbraio scorso una decina di malati. Quel giorno, sulla regione si sono abbattuti almeno quaranta raid aerei che distrussero questo piccolo presidio sanitario assieme a due mercati e all’ospedale di Maarat Al-Nouman. “Sei malati morirono sul colpo, gli altri dopo qualche giorno di tremenda agonia”, dice ancora il comandante. Della struttura non rimane granché: un paio di letti anneriti e contorti dall’esplosione, un’incubatrice quasi intatta e diversi faldoni pieni di documenti miracolosamente scampati alle fiamme.