DI OIZA Q. OBASUYI

 

L’11 novembre un’imbarcazione partita dalla Libia con un centinaio di persone a bordo è affondata nel Mediterraneo centrale. Nonostante i tentativi di soccorso della Ong Open Arms sono morti sei richiedenti asilo e un neonato di sei mesi di nome Joseph, originario della Guinea. La morte di questo bambino ha avuto, almeno sul momento, una risonanza mediatica importante ed è stata narrata dalla maggior parte delle testate giornalistiche mainstream. È bastato un attimo però perché finisse nel dimenticatoio, senza approfondire le cause dell’ennesimo naufragio nel Mediterraneo. Niente a che vedere con la reazione corale che tutto il mondo aveva avuto davanti all’immagine di Alan Kurdi, il bambino di tre anni annegato nell’ottobre del 2015 davanti alla spiaggia di Bodrum. La sua maglietta rossa era diventata un messaggio: non succederà più. E invece è successo ancora e ancora, ma adesso non sembra importare più a nessuno.

Di Mediterraneo si parla solamente quando avviene la “tragedia”, come se si trattasse di un disastro naturale di cui nessuno ha responsabilità e che viene evidenziata solo per suscitare la compassione di breve durata dell’opinione pubblica: un approccio ipocrita alla narrazione delle migrazioni e delle responsabilità europee a riguardo. Il culmine di questa ipocrisia si è raggiunto con un tweet pubblicato sulla pagina Twitter dei Deputati del Partito Democratico con scritto testualmente: “Il mare ha portato via con sé anche i tuoi piccoli sogni. Perdonaci se non siamo riusciti a proteggerti”. Il tweet ha suscitato le polemiche di chi ha sottolineato che non si è trattato di un semplice incidente e che “il mare” in sé non c’entra nulla. Al contrario, le responsabilità politiche sono evidenti, come ha sottolineato Medici Senza Frontiere in risposta al tweet, e derivano da politiche migratorie che diventano micidiali nelle rotte verso l’Europa che attraversano il Mediterraneo.

Tra queste politiche spicca la criminalizzazione delle Ong, la cui attività di soccorso è stata drasticamente ridotta, come ha ribadito Open Arms anche in questa occasione, dato che si è ritrovata sola durante le operazioni di soccorso. Nonostante l’arrivo della segnalazione di un’imbarcazione alla deriva da parte di Frontex, agenzia per il controllo delle frontiere dell’Unione europea, e la richiesta di una pronta evacuazione da parte della Open Arms, non ci sono state altre imbarcazioni a prendere parte alle operazioni di  soccorso oltre a quella della Ong. La criminalizzazione delle organizzazioni non governative è una delle questioni centrali dei Decreti Sicurezza del primo governo Conte che, ricordiamolo, sono stati semplicemente modificati dall’attuale esecutivo e non abrogati.

Nonostante alcuni cambiamenti rilevanti, come la reintroduzione dell’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo e di una specie di protezione umanitaria ora denominata “protezione speciale” – concessa alla persona rifugiata che ha subito trattamenti inumani e degradanti o che rischia di veder violato il diritto alla vita privata e familiare nel Paese di origine, qualora venisse rimpatriata –, nulla cambia nella sostanza del soccorso marittimo e della questione migratoria. Sebbene nei Decreti Sicurezza precedenti la criminalizzazione delle Ong fosse più severa, con maxi multe che potevano raggiungere un milione di euro, e per l’ingresso forzoso in acque territoriali l’illecito passi da amministrativo a penale — con un ridimensionamento delle sanzioni pecuniarie applicabili nel caso in cui venga accertata, da parte di un giudice all’esito del suo vaglio,  la colpevolezza di chi ha operato —, rimane l’assetto securitario e di contrasto alle operazioni di soccorso.

Come spiega Giorgia Linardi, portavoce della Ong Sea Watch, si tratta di una legge che non dovrebbe neanche esistere, in quanto è lo stesso Decreto Sicurezza che descrive la natura di qualsiasi imbarcazione che passa in acque territoriali come offensiva, anche quando si tratta di soccorso in mare. Tale criminalizzazione è sancita dall’Articolo 1 del Decreto Sicurezza Bis (Decreto Legge 53/2019) per cui il il ministero dell’Interno può limitare o proibire l’arrivo, il transito e l’approdo di navi nelle acque territoriali italiane quando queste ultime favoreggiano l’immigrazione clandestina.

Tuttavia l’Ohchr (Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite) ha sottolineato come una legge nazionale simile sia in contrasto con le convenzioni internazionali, che assumono una rilevanza maggiore specie se si tratta di uno Stato che ha firmato diverse convenzioni per la tutela dei diritti umani, tra cui anche le Convenzioni Sar e Solas, rispettivamente Search and Rescue (Ricerca e Soccorso) e Convention for the Safety of Life at Sea (Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare), che prevedono il soccorso in mare e lo sbarco in un porto sicuro (Place Of Safety). Inoltre, l’Articolo 19 della United Nations Convention on the Law of the Sea (Unclos, Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare), in cui si approfondisce il significato di innocent passage, sancisce che il passaggio di una nave è da considerarsi un passaggio offensivo qualora venga utilizzata la forza contro la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dello Stato.

Viene quindi da chiedersi come le Ong che operano nel Mediterraneo, nel rispetto degli obblighi delle convenzioni internazionali, e chi viene soccorso possano essere percepiti come minaccia. Lo sbarco delle persone soccorse in mare in un porto sicuro è parte integrante e fondamentale delle convenzioni internazionali (Sar e Solas), di cui l’Italia è un firmatario. Inoltre, anche il Testo Unico sull’Immigrazione, quindi la nostra legislazione nazionale in materia, sancisce all’Articolo 10-ter che “Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi”.

La struttura dell’Articolo 1 del Decreto Sicurezza Bis rimane ancora in vigore, nonostante sia stato provato più volte che non vi è alcuna correlazione tra le Ong che operano nel Mediterraneo e il pull factor dei migranti verso l’Europa, così come le loro navi non mettono in pericolo in alcun modo la sovranità dello Stato. Questa criminalizzazione, insieme all’affidamento delle operazioni di ricerca e soccorso alla Guardia Costiera Libica tramite un procedimento di esternalizzazione delle frontiere e respingimenti verso i centri di detenzione libici, dove avvengono sistematiche violazioni dei diritti umani, ha inibito le operazioni di soccorso provocando un gran numero di “tragedie” evitabili.

Come ha affermato il gruppo di medici presenti sulla Open Arms durante l’attività di soccorso, l’ultimo naufragio è avvenuto a pochi chilometri dalle coste di un’Europa che continua a rimanere indifferente e che, anziché sviluppare una strategia efficace comune per gestire le migrazioni, finge di non vedere il cimitero che si è creato nel Mediterraneo.

Ci troviamo in un’Europa formata da Paesi, come l’Italia, che prediligono concludere accordi con Paesi terzi, tutt’altro che sicuri, per contenere i flussi migratori anziché creare un sistema efficace di corridoi umanitari, di visti umanitari e di politiche migratorie sicure e nel rispetto dei diritti umani che si basano sul diritto alla libertà di movimento, senza che la potenza del passaporto e il reiterato rifiuto della concessione di un visto siano fattori determinanti. Chi nel 2017 ha promosso e firmato il Memorandum d’Intesa con la Libia e nel mese di luglio di quest’anno ha votato a favore del rifinanziamento della sedicente Guardia costiera libica ha presentato questo naufragio come un incidente dovuto alla casualità. Chi ha detto che non si è “riusciti” a fare di più, dovrebbe ammettere che non si è voluto fare di più e farlo meglio.

Il senso di sorpresa e fatalità che le testate giornalistiche hanno voluto trasmettere con la narrazione del naufragio dell’11 novembre e della morte di sei esseri umani  – tra cui un bambino di appena sei mesi – è in contrasto con una realtà tutt’altro che sconosciuta alle forze politiche e a buona parte dell’opinione pubblica italiana ed europea. Non è quindi possibile ridurre un avvenimento simile, l’ultimo di una serie che va avanti da anni, a una notizia che può essere dimenticata il giorno dopo la sua comparsa nei palinsesti. Nel 2020 già più di 10.300 migranti sono stati intercettati e riportati nei centri di detenzione libici. Ormai la sorpresa rispolverata insieme a un cordoglio di circostanza per l’ennesima tragedia in mare è solo una reazione ipocrita. Conosciamo da anni le cause e i motivi per cui il Mediterraneo e le rotte seguite dai migranti si stanno trasformando in cimiteri sempre più affollati. Dobbiamo pretendere dal governo italiano e da tutta l’Europa una strategia comunitaria perché questo smetta di succedere. I tweet lacrimevoli non ci bastano più.