“Eravamo anarchici, ma anarchici col cuore” – sintetizza John Cale, narratore predominante nell’ultimo documentario firmato da Todd Haynes sulla liminale rock-band statunitense. Bisogna lasciarsi avvolgere – come Renton in overdose inghiottito nel rosso tappeto sulle note di Perfect Day – dalla magnetica voce del dioscuro polistrumentista, guru della musica d’avanguardia, mentre per un’ora abbondante scivoliamo nei bassifondi della contraddittoria New York di metà anni ’60. Se, però, vi aspettate di vedere scatenati filmati tratti dall’Exploding Plastic Inevitable Tour, avete sbagliato film. Il regista americano – con un evidente conto aperto nei confronti della musica alternativa di quegli anni – dopo Velvet Goldmine e I’m not there ricostruisce l’atmosfera d’estrema sperimentazione della scena newyorchese. Un viaggio cronologico, intimistico e concettuale, mosaico di teste parlanti, frammenti di video e foto, spesso alternati con la tecnica dello split screen per versi analogo al Chelsea Girls di Warhol.
I Velvet Underground, in effetti, non sono mai stati davvero una band; piuttosto l’incontro-scontro tra gli ipertrofici ego di due straordinari musicisti – Lou Reed e John Cale –, accompagnati da due bravi musicisti e diretti da un altrettanto egomaniacale manager. Andy Warhol, infatti, oltre a firmare l’iconica e dissacrante cover del primo album – la celeberrima banana da “pelare lentamente” per scoprirne la sbucciata versione rosa shocking celata sotto l’adesivo –, impose loro la valchiria Nico per recitare i testi scritti da Reed. Il sodalizio durò giusto l’album d’esordio e, poco dopo il secondo, terminò anche quello con il musicista gallese, espulso dal gruppo – a quanto racconta – senza neppure esserne informato dallo strafatto cantante-chitarrista. La voce di Lou Reed, proveniente direttamente dall’empireo del rock d’altronde non può certo contestarne la ricostruzione e questo toglie un po’ di obiettività al documentario. Quel che è certo è che i Velvet Underground erano troppo avanti, radicalmente precursori di suoni futuristici e completamente avulsi dalla realtà discografica dell’epoca. Il singolare caso di una band che influenzò più gruppi e generi di quanti lp vendette. Solamente due dei cinque dischi entrarono nella Top 100, gettando frustrazione su una band già lacerata dal dualismo dei due fondatori che, per ottenere successo dovettero abbandonare la Factory e il manager-cannibale che foraggiava gli dei dell’arte con la carne dei propri adepti. Destino simile a molti artisti entrati nell’orbita dell’onnivoro Warhol.
The Velvet Underground descrive approfonditamente l’origine della band, iniziata con il sodalizio dei due dioscuri in una formazione chiamata The Primitives, assemblata in fretta e furia dalla Pickwick Records. The Ostrich, primo singolo firmato da Reed ha già in nuce le caratteristiche dei Velvet: un The Twist rivisto e corretto in chiave rockabilly portato al limite del noise-garage con un testo ispirato a una stravagante passione modaiola per le piume di struzzo. L’aspetto letterario è da subito predominante; non solo lo stesso nome Velvet Underground, diretto prestito dall’omonimo libro di Michael Leight sulle perversioni sessuali del decadente occidente a stelle & strisce, ma la fondamentale influenza che il poeta Delmore Schwartz ebbe su Lou Reed mentre frequentava la Syracuse University. Fu proprio lui, con il suo dissoluto stile di vita a introdurlo alla lettura dell’autobiografico Junky di William Burroughs, al quale accompagnava la passione per il noir di Chandler, spronandolo a scrivere versi “autentici”. I testi dovevano essere brutali, senza intermediazione, come ascoltare qualcuno che (stra)parli alle cinque del mattino dopo un’interminabile serata di vizi.
I Velvet Underground, d’altronde, odiavano più d’ogni altra cosa gli hippies, la loro retorica “buonista”, i fiori, e tutte le loro stronzate lisergiche. Si vestivano completamente di nero – spesso dando le spalle al pubblico in sala – e durante la Summer of Love si spruzzavano eroina in vena cantando di pusher, puttane e pratiche sadomaso (come nella celebre Venus in Furs tratta dal libro di Leopold von Masoch). Agli antipodi del decennio frichettone evitavano come la peste ogni concerto all’aperto, preferendo piccoli club per scambisti e puzzolenti locali dei bassifondi dove sprigionare quella musica d’avanguardia nichilista. “La musica deve essere diretta, raccontare la realtà, la città” – spiega Lou Reed avvolto nel suo giubbotto di pelle nera, protetto dagli immancabili avvolgenti occhiali da sole; mica suonata nel mezzo di prati fangosi, vestiti da idioti che protestano contro la guerra. Il Vietnam avrebbero potuto benissimo incenerirlo di napalm invece di mandarci tutti quei “stalloni americani” a morirci invano; tutti quei corpi muscolosi e sudaticci fatti a pezzi dalle baionette dei vietcong. Un vero spreco.
Todd Haynes, ovviamente, s’impegna in un’accurata ricerca d’archivio per la colonna sonora del lungometraggio, scovando alcuni decisivi inediti; registrazioni live come l’estratto 17 XII 63 NYC The Fire Is A Mirror dei The Theatre of Eternal Music (nome predecessore del The Dream Syndacate di Cale); il già menzionato singolo The Ostrich eun’incredibile versione dal vivo di Sister Ray che con i suoi venti minuti di poderoso giro di basso e l’incalzante riff distorto e angosciante, anticipa il garage rock e perfino il metal. Foggy Notion, After Hours e Ocean chiudono il secondo disco, certificando la band come precorritrice del proto-punk di Iggy Pop e della new-wave dei Joy Division e ispiratrice perfino del krautrock dei Can. Alla fine resta solamente la nostalgia e anche il risentimento di una band incompresa e incensata solamente a posteriori dalla Critica, come traspare dai ricordi degli altri membri della band, traditi dal subitaneo abbandono di Lou Reed nell’estate del 1973. Per lui si chiudeva un’epoca; iniziava il periodo glam-rock accanto a David Bowie.