di Paolo Garimberti
Quando verrà scritta la storia di questo periodo, la guerra di Putin in Ucraina avrà lasciato la Russia più debole e il resto del mondo più forte”. In questo passaggio del suo primo discorso sullo stato dell’Unione Joe Biden ha tracciato la linea del fronte politico-ideologico, più ancora che militare, del conflitto che sta mettendo a ferro e fuoco l’Ucraina e sconvolgendo i cuori e le menti di tutta l’Europa.
C’era l’ambasciatore ucraino a Washington ad ascoltarlo, seduto accanto alla first lady Jill, accolto da una standing ovation dall’aula nella quale molti vestivano i colori giallo e blu dell’Ucraina. La stessa scena che abbiamo visto al Parlamento europeo, martedì, riunito per ascoltare il disperato messaggio del presidente ucraino Zelensky. O ieri a Westminster, dove è stata rotta una secolare tradizione che vieta applausi nell’aula del Parlamento britannico per manifestare solidarietà al rappresentante di Kiev. E non è certo casuale che il Paese che seppe mostrare una straordinaria capacità di resilienza agli attacchi dei bombardieri di Hitler abbia reagito con estrema durezza alle azioni di Putin, definendolo, nelle parole di Boris Johnson, “un criminale di guerra”. Come ha detto Mario Draghi al Parlamento: “Putin ci vedeva impotenti e divisi e si è sbagliato”.
Perfino la Svizzera è uscita per la prima volta dalla sua storica neutralità per sanzionare le banche e gli oligarchi che ruotano attorno al “sistema Putin”, una cleptocrazia che si è smisuratamente arricchita con metodi mafiosi, secondo il documentato libro di Anders Aslund, che attribuisce al presidente russo una ricchezza personale dai 100 ai 160 miliardi di dollari. Questo risveglio di una coscienza atlantica indica la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo conflitto ideologico (qualcuno ha parlato perfino di uno “scontro di civiltà”, evocando il famoso saggio di Samuel Huntington). Che non è più tra comunismo e capitalismo, come nella prima guerra fredda. Bensì tra tirannia e democrazia. In gioco c’è non solo il futuro dell’Europa, ma di tutto il mondo che si ispira a quei valori universali per i quali fu combattuta la seconda guerra mondiale. Per questo Biden ha parlato di “resto del mondo”, e non solo di Occidente.
È la prima volta dal 2002, dal discorso di George W. Bush sull’“Asse del Male”, dopo l’11 settembre, che la politica estera è l’asse portante dell’intervento di un presidente americano sullo stato dell’Unione e prevale sui temi domestici. Ma Biden ha capito che con la politica estera può puntellare una presidenza declinante, recuperando la leadership della Nato e dell’intero Occidente, dopo le lacerazioni del disastroso abbandono dell’Afghanistan e le difficoltà di far decollare con gli alleati europei una linea con l’epicentro in Asia per il contenimento della Cina.
Quando Biden parlò per la prima volta, agli inizi della sua presidenza, di “una battaglia tra democrazie e autocrazie nel 21mo secolo” aveva in mente più la Cina che la Russia, un confronto di tecnologie piuttosto che di armi. Il Cremlino poteva essere un elemento di disturbo, ma non il vero avversario. Ora ha capito che il containement della Russia di Putin, la capacità di contenere e limitare l’espansionismo del nuovo zar, sarà il vero test dei prossimi tre anni della sua presidenza. Come accadde con l’Urss di Stalin dopo il 1945. Il pivot to Asia , che è stato il mantra delle ultime presidenze americane, è finito sotto le macerie dei palazzi di Kharkhiv, di Mariupol, di Kiev e di tutte le città martiri dell’Ucraina.
Biden è certo più a suo agio, per la sua storia politica, in questa nuova dimensione del confronto Est-Ovest. Come ricorda il New York Times ,
Biden “è uno dei pochi architetti dell’ordine post-sovietico ancora al potere a Washington e per lui i confini della Nato sono ben più che una mappa, sono il testamento vivente di quello che accade quando i popoli liberi possono scegliere i loro alleati”.
Per Vladimir Putin quella stessa mappa della Nato è invece un cappio per strangolare la Russia. Lo diceva già nel 2007, un anno prima di attaccare la Georgia con lo stesso pretesto (la protezione dei russi in Abkhazia e Ossezia) usato poi per avviare la guerra a bassa intensità nel Donbass. Le lente e deboli reazioni occidentali all’annessione della Crimea, nel 2014, e all’intervento sotto mentite spoglie nell’Ucraina russofona lo hanno spinto all’azzardo estremo di queste ore. L’inaspettata resistenza degli ucraini, la capacità di leadership di Zelensky, la forza e la compattezza delle sanzioni dell’Occidente stanno esasperando la sua ossessione e forse anche la sua tenuta nervosa. La sola risposta che sembra saper dare è un’escalation militare indiscriminata di estrema crudeltà verso la popolazione civile (altro che russi e ucraini “unico popolo”) e un aumento delle minacce propagandistiche. Perfino il ministro degli Esteri Lavrov ha abbandonato ogni ritegno diplomatico dicendo che un’eventuale terza guerra mondiale “sarà nucleare”.
È difficile immaginare chi può fermare Putin in questo delirio di onnipotenza. Non illudiamoci che qualche timida dichiarazione di oligarchi, peraltro pronti a fare marcia indietro il giorno dopo, o alcune migliaia di giovani che scendono in piazza lo facciano ricredere. Come ha scritto su questo giornale Viktor Erofeev, “nulla di serio”, che possa far recedere Putin dal suo piano di riconquista del “mondo russo”. Non ascolta neppure il suo cerchio più ristretto, dove peraltro dominano i siloviki (gli uomini della forza) o gli adulatori impauriti. La demokratura è ormai dittatura allo stato puro.
Nessuna sa che cosa nascerà dalle ceneri dell’Ucraina. Ma, come ha ricordato Michael Beshloss, storico delle presidenze americane, neppure Franklin D. Roosevelt sapeva che cosa sarebbe scaturito dall’assedio delle truppe di Hitler a Kiev quando parlò al Congresso nel 1941. Quattro anni dopo si sedette a Yalta con Stalin. Ma avevano combattuto dalla stessa parte ed erano due vincitori. Se Biden e Putin dovessero incontrarsi dopo la guerra in Ucraina ci saranno, invece, un vincitore e un vinto. E l’Europa non sarà, comunque, più la stessa di quella che avevano sognato i padri fondatori della sua Unione dopo la tragedia della seconda guerra mondiale.