Sentimenti e ragione in questa Siena al passaggio d’epoca

«Siena senza il Monte non me la posso immaginare»: è (forse) arrivato il momento della verità per la più antica banca ancora in vita, e non c’è calcolo che tenga: la ragione non attenua i sentimenti. Le voci che si raccolgono in questa fine di luglio sono venate di dubbi. Vien da chiedersi quale possa essere l’alternativa alla temuta fagocitazione del Monte da parte della balena Unicredit. Che occorresse inventare una formula in grado di sottrarre il naviglio di Rocca Salimbeni ai marosi in cui si trovava  a navigare da anni era evenienza quasi scontata. Ma quando i tempi stringono i timori riemergono. Il fatto è che il Monte ha fatto tutt’uno con i travagli di una città-Stato, con vicende personali e entusiasmi collettivi, con belle imprese civiche e con un decoro conquistato a fatica. Proprio questo radicamento ha instillato la convinzione che un passato così lungo e fecondo avrebbe resistito all’urto insidioso della modernità. E anche dopo la trasformazione in Società per azioni della sua banca ha stentato a decollare un progetto che unisse fedeltà a innovazione con coraggiosa lungimiranza. Il disastro provocato dall’azzardata acquisizione di parte di Antonveneta è stato solo l’ultimo anello di una catena di errori o titubanze: certo quello fatale. Ma possibile che non si sia riusciti a risalire la china? Si è almanaccato attorno a diverse ipotesi. Far diventare il Monte un polo aggregante di realtà minori, ma tali da rispondere alle esigenze dimensionali richieste da un euforico riformismo. Si è accentuato un processo di internazionalizzazione avviato negli Anni Settanta . Ci si è illusi di conservare attraverso la Fondazione la proprietà reale dell’Istituto di credito di diritto pubblico. Ora ci si chiede se l’interessamento monogamico manifestato da Unicredit si tradurrà in una compartecipazione nell’operatività dei settori sani o condurrà, magari non subito, ad una scomparsa vera e propria. L’idealizzazione cancella le ombre del passato: è inevitabile quando si pensa soprattutto al futuro. Produce nostalgia, morbo quanto mai infausto in politica che può aiutare a infondere uno scatto di volontà e far superare antagonismi partitici di corto respiro o un facile scarico di responsabilità. E si medita su modalità che consentano al Monte di avere un avvenire non dimentico di una traiettoria grandiosa, a partire dal nome derivante dal Monte Pio voluto dai francescani per dotare il popolo di uno strumento che aiutasse a combattere le crude povertà inferte dal cinico accumulo di ricchezze del nascente capitalismo. Quando si celebrò il quinto centenario (1972) della fondazione del Monte si accettò per buona la sottile lettura che della nascita del Monte moderno autorizzata da rescritto granducale di Ferdinando II nel 1625 avanzò Armando Sapori: nel nuovo statuto sussisteva un prezioso richiamo ai capitoli dell’originario  Monte: per sancire un’ indubbia continuità di luogo e di intenti generali. Perché non concepire la Banca Monte dei Paschi – qualcuno rimugina – come un’articolazione dotata anche di una sua autonomia in una sorta di holding  con capofila Unicredit? Perché il Monte non deve restare in una costellazione ad ampio raggio europeo? Si preparano derivati con fantasie talmente spericolate! Perché non sperimentare rapporti inediti? La nostalgia consacra parole scelte per alludere non solo a compensazioni di facciata. Che c’è da guadagnare nel far sparire un nome così celebre? Perché celare un matrimonio che può vantare una provenienza tanto nobile? Non mi avventuro nell’abbozzare altre idee che fioccano. Per addolcire i turbamenti che assalgono per i cosiddetti esuberi – persone che perdono (volontariamente?) il loro lavoro – vien da evocare frammenti dell’aneddotica che ha accompagnato episodi minimi, che esprimono talvolta una fiera moralità. Salgono sull’immaginaria scena categorie modeste e popolari. A un direttore che lo invitava a compiere un servizio che non rientrava nelle sue mansioni un commesso disse: «Io non voglio fare il servo e se lo avessi fatto avrei trovato un padrone meno scoglionato di lei!». Il Monte era una comunità percorsa da umori agrodolci. Le annate del notiziario aziendale serba lo spirito di quel bizzarro lessico. Tra i collaboratori in vista il nostro Emilio Giannelli, che vi disegnò una delle sue graffianti vignette. Un cassiere si rivolge a una signora: ‘sa noi siamo nati prima dell’America’, e la signora di rimando indispettita: ‘accidenti come siete rimasti indietro!’. L’albagia rassicurante della storia annebbia l’intelligibilità del presente. Occorrono comprensione e generosità se si vuol varare un progetto non soltanto basato su cifre fallaci, ma utile oggi per società che in tempi di travolgente globalizzazione e di epiche narrazioni non deve dimenticare le civili e autentiche memorie. E ha il compito di reagire con determinazione concorde, al di là di vane diatribe elettorali, di fronte ad un passaggio d’epoca. Un’élite agguerrita, nonostante la caduta della Repubblica e la perdita dell’indipendenza, ci riuscì, sfidando un Granduca che sapeva guardare lontano.

Roberto Barzanti         

“Corriere Fiorentino”, 31 luglio 2021