Se l’uomo tace ascoltiamo gli animali

I delfini che tornano a Trieste, i cervi nei campi da golf, i cani che ci interrogano sorpresi Ecco come ritrovare un dialogo antico tra noi e loro
di Marino Niola
Idelfini tornano a sguazzare giocosi nel porto di Trieste, le anatre si bagnano nelle fontane di una Roma deserta, i cinghiali passeggiano sulla via Cassia, le lepri scorrazzano indisturbate nei parchi di Milano e non solo. E mentre i cigni scivolano sulle acque dei navigli milanesi, daini e cervi si affacciano sui campi da golf. Mentre noi siamo in quarantena la natura si riprende i suoi spazi, finalmente liberi dall’invadenza umana. E su tutto si leva il canto libero degli uccelli, che echeggia nel vuoto delle nostre città, come il ritorno di un motivo antico ormai dimenticato. Nostro e non più nostro.
Ma anche gli animali domestici in questi giorni non sono più gli stessi. I cani, felici di non esser lasciati soli, si agitano perché non possiamo portarli a spasso. I gatti sembrano smarriti dal silenzio che regna nelle strade senza suono e dall’improvviso sovraffollamento delle case nelle quali di solito si aggirano indisturbati. E noi li spiamo, studiamo i loro comportamenti fuori norma, nella speranza di scoprirvi dei segnali la cui comprensione è interdetta a noialtri bipedi parlanti. Forse perché in questi momenti avvertiamo che loro sono più vicini di noi alla natura e ai suoi decreti. È come se, nell’acutezza dei loro sensi, riconoscessimo una capacità di intercettare in tempo reale le mosse del bios , della materia vivente.
Ci rendiamo improvvisamente conto, quando le ragioni del corpo prendono il sopravvento su quelle del calcolo, di essere impreparati, in ritardo. Perché, come diceva Fernando Pessoa, l’uomo non sa più degli altri animali. Sa molto meno. Loro sanno quel che devono sapere, noi no. Ed è proprio il mistero di quella corrispondenza silente con gli arcani naturali che noi cerchiamo di decifrare negli occhi dei nostri amici a quattro zampe. È come se tentassimo di ritrovare le chiavi di quell’animalità che abbiamo in comune. Del resto, la parola animale viene proprio dal greco ánemos , che significa anima nel senso di vento, di soffio vitale ed indica proprio il respiro che ci affratella a tutte le altre creature viventi.
È per questo che nei momenti di pericolo, quando la natura versa in uno stato dRepNews*i eccezione, gli uomini tacciono e gli animali parlano, nella loro lingua muta che noi, da che mondo, è mondo ci affanniamo a decifrare. Oggi con gli strumenti della scienza, una volta con quelli della credenza. Adesso chiediamo alla ragione quel che in altri tempi chiedevamo alla religione o alla tradizione. Anticamente alla mitologia, all’allegoria. Ora all’etologia e alla zoologia. O semplicemente alla fantasia.
Il rapporto con gli animali è sempre stato, per gli uomini, uno specchio, in cui veder riflessi se stessi, vizi e virtù, ma anche dove sciogliere gli enigmi della realtà. Ecco perché, in questo momento, chi scruta gli animali, domestici e non solo, ed ha l’impressione che siano diversi dal solito, trasforma quello scarto del comportamento in monito, in segnale. È come se sfogliasse le pagine di un bestiario vivente per leggervi quello che le bestie sanno e noi no. E se poi si tratta di specie come le lepri che saltellano nei giardini pubblici, il surplus simbolico è assicurato.
Dai tempi degli auguri e degli aruspici latini, questa bestiola crepuscolare e notturna è sempre stata circondata da un’aura profetica. Che ne faceva un sismografo vivente, capace di avvertire in anticipo i cambiamenti climatici, atmosferici, sociali. Anche perché la particolarità di nascere con gli occhi aperti la associava strettamente alla visione e alla previsione. Oltretutto era considerata un portafortuna e le sue zampe vengono ancora adoperate come amuleti scacciaguai. In questo momento ce ne vorrebbe un tir.
Insomma, i nostri progenitori pensavano che l’uomo fosse superiore per intelligenza ma che in compenso gli animali lo fossero per la loro natura primordiale, per la loro fedeltà alle leggi cosmiche, per quella regolarità di gesti e di movimenti che oggi chiamiamo programma genetico. Per questo la rottura di quella regolarità, i cosiddetti prodigi del regno animale diventavano altrettanti annunci, segnali della volontà del cielo o di inquietanti congiunzioni astrali. Per questo Shakespeare, nel suo Giulio Cesare, fa precedere l’assassinio del divo Giulio da una serie di anomalie del comportamento animale. Da una lista di oscure metamorfosi che intromettono nel misterioso libro della natura parole nuove e insensate, che ne stravolgono l’ordine. Un leone che passeggia nel Campidoglio e fissa a lungo negli occhi Casca, uno dei congiurati. O un animale della mezzanotte come la civetta che si posa «col suo sinistro, stridulo singulto in mezzo al foro, in pieno mezzogiorno ». Addirittura, nel clima della Riforma protestante e della lotta fra Lutero e il papato, si era diffusa per l’Europa la notizia che a Roma era nato un vitello con un segno sulla testa simile alla tonsura dei monaci. Quasi che il cielo volesse denunciare la corruzione degli ordini monastici e della chiesa romana.
Ovviamente il linguaggio dei simboli cambia con i tempi. Ma, al di là delle differenze, resta un minimo comune denominatore. Perché in ogni caso i comportamenti degli animali venivano e vengono letti come profezie illustrate, come messaggi in codice. Così ai casi straordinari, agli imprevisti, ai fenomeni fuori del normale viene data una spiegazione fuori del normale, ieri come oggi. Forse perché è difficile rinunciare a darsi una spiegazione. E accettare che il destino, come diceva Oscar Wilde, non manda araldi. È troppo saggio o troppo crudele per farlo.
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