Fuori nevica e ormai la coltre bianca ha superato l’orlo del marciapiede. Le strade sono ovattate, ma nella stanza dell’editore si agitano molti fantasmi. Sul suo tavolo è planato il manoscritto di un autore noto: una potenziale gallina dalle uova d’oro. Narra un episodio realmente accaduto, la vicenda di una persona che l’editore conosce e che non vorrebbe fosse pubblicato perché quel ricordo la mette in pericolo. «Mi aveva promesso che non lo avrebbe raccontato mai in un libro», dice lei con amarezza. Ma gli artisti si sono sempre serviti del materiale che avevano sottomano, tradendo la fiducia di chiunque.
È la mia storia della danese Janne Teller (Feltrinelli, pp. 144, euro 14, traduzione di Maria Valeria D’Avino) è un romanzo filosofico che per gran parte si svolge dentro la testa dei suoi protagonisti. E si nutre di dilemmi, pone domande, cerca risposte, procede a onde, cavalcando momenti di rinuncia e cinismo. L’autrice – ospite al Festivaletteratura di Mantova – è la stessa di quel controverso Niente, romanzo pensato per un pubblico giovane e che invece a quegli stessi giovani è stato negato da alcune scuole scandinave, nonostante sia stato premiato dal ministero della cultura. Vietato perché di un nichilismo senza sbocchi: un gruppo di adolescenti decide di dare un senso alla vita mettendo a disposizione oggetti per loro preziosi, trasformandosi così in attori di un gioco macabro, accatastando mutilazioni e morte.
«È la mia storia» interroga lettori e lettrici sull’ambiguità della moralità e la fallibilità dei principi etici. In fondo, lo stesso argomento del romanzo «Niente»…
Niente poneva domande esistenziali sulla vita umana, mentre quest’ultimo romanzo solleva questioni etiche. Entrambi frugano nell’essenza, nel significato della vita e delle scelte che faremo. In generale, scrivo sempre su ciò che non capisco. Imbastire trame e osservare cosa succede è un modo per avvicinarsi al nocciolo di un problema. Camus ne La caduta sostiene che siamo tutti moralmente precipitati. È uno dei miei libri preferiti, l’ho letto molte volte. Siamo però ossessionati dalla domanda successiva: quanto cadiamo moralmente, possiamo decidere cosa diventare? È la mia storia parte proprio da qui. Invece, gli interrogativi esistenziali di Niente appartengono alle voci degli adolescenti, quando la mente pensa in modo radicalmente aperto. Quelli etici richiedono personaggi che hanno già sperimentato le dinamiche del mondo e la delusione dell’idealismo giovanile. La lotta si svolge principalmente dentro loro stessi.
Il suo libro sviluppa anche un discorso sulla letteratura in sé, sospesa tra realtà e finzione, conoscenza dei fatti e invenzione… Crede che un romanzo possa racchiudere responsabilità sociali?
La letteratura ha innanzitutto la responsabilità di essere una buona letteratura. Dirci verità più profonde sulla condizione umana rispetto a ciò che la realtà immediata può mostrarci. È qui che lo scrittore assume la sua prima responsabilità abdicando al proprio ego, alle motivazioni personali o politiche. Naturalmente, non è senza conseguenze: quando la letteratura rivela alcune verità genera un impatto a lungo termine sul funzionamento della società. Shakespeare capì l’interazione con il subconscio senza Freud. Saffo era una femminista migliaia di anni prima che il concetto stesso scaturisse. E attraverso il bambino della fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore, H.C. Andersen ci offre la chiave per comprendere la strada intrapresa dall’adolescente Greta Thunberg, in lotta per il pianeta.
Oggi, è più importante che mai esaminare i meccanismi che agiscono negli esseri umani, compresi razzisti, terroristi o violenti. Se non capiamo come le persone pensano e si sentono, in che modo possiamo influenzarle? O fermare chi corre sul binario sbagliato? Ovviamente, i personaggi immaginari non possono sopportare una responsabilità sociale al pari di chi vive nel mondo reale. È qualcosa che accade a un livello più profondo.
La sua famiglia fu costretta a emigrare in Danimarca durante la guerra. Quel background è importante quando scrive?
Non ho mai disseminato di riferimenti autobiografici i miei libri, ma il mio vissuto torna in quel che scelgo di scrivere. Mia madre arrivò in Danimarca dall’Austria grazie alla Croce Rossa e mio nonno paterno, a 19 anni, aveva attraversato una Germania devastata dalla guerra nel 1919 con soltanto 20 marchi: era tutto ciò che aveva per ricominciare una vita in Danimarca. Nelle mie fibre sono una discendente di conflitti geo-politici, guerre e immigrazione. Sono anche un ibrido, mi sento europea e non solo danese. Prima di dedicarmi alla scrittura a tempo pieno, ho lavorato per le Nazioni Unite. Mi interessa esplorare i meccanismi del fanatismo e della violenza. Ho sperimentato di persona le conseguenze che quei dispositivi hanno su famiglie e generazioni. I conflitti diventano distruttivi ovunque vi sia uno sfaldamento dell’etica. L’etica non ha nulla a che fare con le convenzioni o il moralismo. È l’equilibrio etereo dell’universo.
Lei ha lavorato alle Nazioni Unite, proprio come il personaggio del romanzo…
Sì, il lavoro della protagonista femminile è simile a quello che ho svolto per le Nazioni Unite in Mozambico. E l’assalto descritto nel libro somiglia a quello che ho vissuto – in una strada deserta con venti/trenta uomini ubriachi intorno a me che volevano costringermi a entrare nella casa che avevo appena lasciato. Contrariamente al personaggio di È la mia storia sono riuscita a scappare, ingannando gli aggressori: riesco a malapena a credere di avercela fatta. Quell’esperienza è entrata nel romanzo, ma in una forma diversa. Inoltre, un autore ha scritto un libro basato su una serie di cose che gli avevo raccontato e che aveva promesso di non rivelare mai. È stato devastante, ma alla fine mi ha ispirata. Qui, però, la storia è totalmente immaginaria. Volevo scandagliare quel dilemma con un meraviglioso caleidoscopio. I personaggi sono inventati: l’editore, lo scrittore di bestseller e Petra Vinter che un po’ rappresenta la voce della coscienza. Proprio come Pierre Anthon in Niente custodisce le domande esistenziali che ognuno di noi porta dentro di sé, anche quelle voci che ci infastidiscono e vorremmo non ascoltare, eppure sono nella nostra testa. Nei miei romanzi, offro loro solo forma e carne.
«Niente» non è stato amato nelle scuole danesi. Come se lo spiega?
Non solo in Danimarca, anche in Norvegia e in altri paesi. È molto strano che nell’Europa moderna un romanzo possa essere vietato solo per gli interrogativi che risveglia. Ci raccontiamo sempre che viviamo nella migliore società possibile, quindi era stimolante che un libro graffiasse sulla bella superficie e costringesse i lettori a porsi domande sui valori reali della nostra epoca moderna e delle nostre vite personali.
È la mia storia ha avuto un destino simile. Ho osato porre domande sull’etica e il sistema capitalista concorrenziale non ha spazio per tali questioni. Si frantumerebbe se iniziassimo a prenderle sul serio. Se un numero sufficiente di persone iniziasse a mettere davanti a sé i nodi etici prima della propria vittoria, il mondo cambierebbe rapidamente. È una rivoluzione che può ancora accadere. Credo che questo sia il motivo per cui il romanzo sia stato accolto con tanta resistenza. Etica ed esistenzialismo non sono i benvenuti o i comodi compagni in una società dei consumi. Ma dal momento che non possiamo più ignorare l’ambiente naturale, forse la crisi climatica si rivelerà l’unica sfida che ci costringerà ad affrontare l’etica. Finalmente!