I padroni del mondo vorrebbero che la storia si fermasse una volta per sempre e che il capitalismo neoliberale, mitigato dal flebile riconoscimento dei «diritti dell’uomo», costituisse l’ultima parola dell’umanità. Ma ogni giorno porta delle nuove smentite. Tuttavia, non è sufficiente addizionare le rivolte planetarie, bisogna anche cercare di comprendere le tendenze di fondo del mondo capitalista, che non si riassumono in una opposizione tra neoliberalismo e democrazia keynesiana. Difficile allora che non si evochi lo spettro di Karl Marx. Molti degli autori più in vista a sinistra – Zizek o Badiou, Rancière o Negri, Harvey o Laclau – si richiamano a un marxismo più o meno tradizionale.
UN ALTRO TENTATIVO di utilizzare gli strumenti concettuali di Marx, ma senza sacralizzarne la lettera, è quello portato avanti da trent’anni dalla «critica del valore». Nata in Germania alla fine degli anni 80 intorno alla rivista Krisis e al suo autore principale Robert Kurz, la critica del valore ha poi fatto numerosi adepti in vari paesi. Al centro della sua riflessione sono le nozioni di lavoro astratto, merce, valore e feticismo della merce. Il capitalismo non è visto solo come una dominazione esercitata da un gruppo sociale, ma come una dominazione anonima e impersonale, esercitata da un «soggetto automatico»: il valore che cresce tramite il lavoro e diventa capitale, in un loop infinito, ma privo di senso. Si tratta di una critica del lavoro, e non di una critica dal punto di vista del lavoro – motivo di una forte opposizione con quasi tutto il marxismo tradizionale, incluse le correnti «eretiche».
Due anni fa, le edizioni Mimesis hanno pubblicato il primo libro di Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione, in cui l’autore affermava che il disfacimento dell’Urss non rappresentava il trionfo del capitalismo, ma la fine del ramo più debole della società mondiale della merce.
Nella prima parte de Le avventure della merce (Aracne, pp. 240, euro 15, trad. di Riccardo Frola) Anselm Jappe esamina i testi di Marx sulla critica dell’economia politica, anche i meno conosciuti, per dimostrare che la critica di valore, merce, denaro e lavoro astratto forma il centro della sua teoria, molto più che la «lotta di classe» (che esiste naturalmente, ma ne è una conseguenza). Gli autori «marxisti» sono discussi solo di sfuggita; l’essenziale è la ricostruzione di una parte del pensiero marxista stesso. Anche la lettura più accurata di un testo importante di critica sociale deve poi dimostrare la sua utilità per farci comprendere il passato e il presente.
Questo è ciò che la seconda parte cerca di fare. Sono esaminate, per sommi capi, le diverse tappe storiche che hanno portato al capitalismo, e poi la sua stessa evoluzione, per terminare con il quadro di una crisi globale, e non più superabile, del sistema intero: uno dei punti forti della critica del valore – che costituisce al contempo uno dei suoi punti maggiori d’attrito con gran parte delle critiche contemporanee del capitalismo – è l’affermazione che l’impiego sempre crescente di tecnologie abbia fin dall’inizio diminuito la quota di valore e di plus-valore di ogni merce, che risulta solo dall’impiego del lavoro «vivo». Questa tendenza all’esaurimento del valore è stata compensata per un secolo e mezzo dall’aumento della massa di merci. Ma dal 1970 circa, con la rivoluzione microinformatica, questa «desostanzializzazione del valore» si è talmente accelerata che solo la continua espansione del credito permette ancora la sopravvivenza del sistema capitalista. La finanza e la speculazione non sono perciò la causa delle crisi economiche, ma la conseguenza.
PER USCIRE da questo stallo (inclusi i danni ecologici che produce) non bastano misure di ridistribuzione, a cui si sono in pratica ridotte tutte le iniziative del movimento operaio storico e delle sue propaggini. Bisogna rompere con il lavoro e la merce, il denaro e il valore, il capitale e lo Stato. Che lo si può fare, l’autore cerca di provarlo con un ricorso all’antropologia culturale, soprattutto alle opere di Marcel Mauss, Karl Polanyi e Marshall Sahlins che dimostrerebbero il carattere eccezionale, e al contempo nocivo, di queste categorie nella storia dell’umanità.
Il libro si chiude con un esame severo di alcune forme contemporanee di critica sociale come la teoria della «moltitudine», la decrescita, la sociologia di Bourdieu e l’altermondialismo di Attac. Anche chi non se la sente di sottoscrivere tutte le implicazioni, spesso molto radicali, del libro di Jappe sentirà comunque la sua grande forza concettuale. La critica del valore non si lascia ridurre né a una variante del marxismo accademico, né a semplice forza ausiliare dei movimenti sociali.
Certi lettori troveranno scoraggianti l’assenza di indicazioni pratiche e il rifiuto di incensare tutte le forme di rivolta e di protesta senza guardarle in dettaglio. Tuttavia, la critica del valore si concepisce chiaramente come parte degli sforzi per l’emancipazione sociale, ma pensa di contribuirvi meglio con una riflessione sui fondamenti stessi di quello che ci opprime. In breve, un libro che dovrebbe interessare tutti coloro che intendono criticare non solo la variante neo-liberale del capitalismo, ma il capitalismo in quanto tale.