Se gli Stati Uniti rompono la Net neutrality.

di Mirko Annunziata

Gli Stati Uniti sono il Paese in cui Internet è nato, trasformandosi nell’arco di pochi decenni da progetto militare in quella rete globale che oggi conosciamo. In un mondo sempre più digitalizzato e interconnesso gli Stati Uniti giocano ancora un ruolo determinante negli equilibri che regolano Internet, sia a livello istituzionale (l’Internet Society, “cuore” scientifico della rete globale, conserva una delle sue due sedi a Reston, Virginia), sia a livello d’innovazione e servizi: la maggior parte dei grandi colossi della rete infatti, da Facebook a Google passando per Amazon, ha sede negli Stati Uniti.

Per questa ragione in molti nel mondo intero stanno esprimendo preoccupazione per la decisione, solo all’apparenza di natura interna, della Federal Communication Commission (FCC) di rigettare il regolamento sulla Net neutrality voluto da Obama nel 2015.

Cosa si intende per “neutralità della rete”? Il termine è stato coniato da Tim Wu nel 2002 e definisce l’obbligo da parte degli Internet provider di garantire la stessa velocità di accesso ai diversi contenuti scelti dall’utente. Può apparire un concetto scontato in virtù del fatto che quando ci si collega a Internet in molti ritengono che ci sia una sola velocità legata al servizio offerto dal provider. La struttura stessa di Internet, invece, fa sì che quando si accede a un contenuto sia molto frequente che le connessioni coinvolte siano numerose. Dal punto di vista strutturale, chi fornisce il servizio di connessione alla rete potrebbe decidere di potenziare o depotenziare il flusso dei dati, favorendo o meno l’accesso a un dato contenuto da parte dell’utente.

Per scongiurare questo scenario Obama nel 2015 fece approvare dalla FCC un regolamento volto a considerare la fornitura di Internet come servizio di pubblica utilità, imponendo di fatto alle aziende fornitrici di rispettare i principi della Net neutrality. Trump, dal canto suo, già in campagna elettorale promise che avrebbe rivisto il sistema e la nuova FCC, a maggioranza repubblicana, è infine riuscita ad abolire il titolo II del regolamento sulla rete degli Stati Uniti, che imponeva ai provider di garantire la stessa velocità per tutti i servizi richiesti. Ciò significa che aziende quali Verizon o Comcast (le corrispettive americane delle nostre Tim, Fastweb ecc.) possono decidere di agire in regime di libero mercato nell’offrire pacchetti Internet a più velocità.

Una decisione che non è piaciuta alle grandi compagnie informatiche come Facebook o Amazon, le quali, vivendo grazie alla rete, potrebbero trovarsi nella condizione di pagare forti somme ai provider per garantire ai propri utenti una velocità di connessione ottimale. Allo stesso tempo la fine della Net neutrality non piace neanche all’opinione pubblica americana, contraria per il 52% (con solo il 18% schierato a favore e il resto che non sa o non vuole esprimere un’opinione in merito), la quale teme soprattutto ripercussioni sull’utente finale in materia di prezzi e servizi. Persino all’interno del Partito repubblicano c’è chi non è del tutto convinto della mossa di Trump e diversi Stati americani si stanno attrezzando per bloccare la decisione della FCC e garantire la Net neutrality nel loro territorio.

Sebbene la decisione sia stata presentata come una misura a favore della liberalizzazione, vi si può leggere l’intento dell’attuale presidente americano di ingraziarsi le simpatie delle compagnie di telecomunicazioni, come del resto si può immaginare abbia voluto fare mettendo alla guida della FCC Ajit Pai, qualche anno fa in forza proprio alla Verizon in veste di consulente legale. Contestualmente all’appoggio dell’industria delle telecomunicazioni, è probabile che Trump abbia dato il suo assenso a procedere anche per ostacolare le realtà informatiche della Silicon Valley, che in più occasioni hanno dimostrato di non gradire affatto la sua ascesa alla presidenza.

Come spesso accade, le decisioni interne agli Stati Uniti hanno rilevanti conseguenze anche per il resto del mondo. Una prima conseguenza, squisitamente politica, è stata la levata di scudi da parte dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri a favore della Net neutrality. La comunità europea non ha ancora una legislazione definita in merito al governo della rete ed è probabile che le discussioni d’oltreoceano spingano sia l’Unione sia i singoli Stati membri ad approvare misure ancora più chiare a favore della Net neutrality. Si tratterebbe dell’ennesimo scollamento tra Stati Uniti ed alleati europei, un processo che se continuasse con la stessa intensità del primo anno di presidenza Trump potrebbe portare, alla fine del suo mandato, a un mutamento sostanziale dei legami tra le due sponde dell’oceano.

È altrettanto vero, però, che neanche i consumatori europei sono del tutto al sicuro; proprio in Europa, più precisamente in Portogallo, è stato tentato un esperimento commerciale da parte del provider locale MEO, il quale offriva pacchetti web con accessi privilegiati ad alcuni servizi (Netflix, Instagram ecc.); un risultato possibile grazie alle lacune presenti nella legislazione portoghese.

In generale solo pochi Paesi hanno adottato leggi chiare in materia di neutralità della rete e il precedente americano potrebbe rappresentare un precedente anche per altri. Da anni in India, realtà in cui la mole di dati consumati, soprattutto da mobile, è in fortissima espansione, le compagnie di telecomunicazioni fanno pressione per poter decidere autonomamente come gestire le velocità di connessione per fare business sostenendo di averne il diritto in quanto la digitalizzazione del Paese è dovuta soprattutto ai loro investimenti.

Un’altra possibile conseguenza è che la decisione americana venga considerata come la chiusura definitiva dell’idea di Internet come piattaforma libera e indipendente. Se Trump può decidere di concedere ai provider americani la possibilità di guadagnare sulle velocità di connessione, per quale ragione un governo autocratico non dovrebbe sentirsi in diritto di bloccare parte della rete per ragioni politiche?

D’altra parte, una volta caduta la Net neutrality, un governo può decidere di ricorrere a misure meno drastiche di blocchi, ad esempio imponendo ai provider che operano nel Paese di “rallentare” l’acceso a certi contenuti sgraditi. La possibilità di agire sulla velocità delle connessioni potrebbe portare a nuove forme di dazi e guerre commerciali, in cui per accedere a determinati siti e servizi occorrerà pagare un sovraprezzo.

Uno scenario che avvilisce il singolo consumatore e conferma come Internet stia diventando il nuovo grande campo di gioco nel decidere gli equilibri dentro e tra le nazioni.