Anteprima Esce giovedì 5 «Alzare lo sguardo» (Solferino), pamphlet della scrittrice in forma di lettera a una professoressa
di Susanna Tamaro
Nel corso di una vita, avere avuto un professore piuttosto che un altro, un maestro piuttosto che un altro può fare una grande differenza. E la può fare soprattutto per i fragili, per i deboli, per quelli che non hanno alle spalle qualcuno in grado di sostenerli.
Che cos’è l’insegnamento infatti, se non un improvviso «vedersi» tra esseri umani? Il più grande vede il più piccolo e intuisce quale sia la strada da indicargli per permettergli di sviluppare la parte migliore di sé.
Un insegnante che ama il suo lavoro ha un compito molto importante: quello di trasmettere la sua passione. Può decidere di esporre il programma pedissequamente o può, percorrendo vie insolite, riuscire ad accendere di luce lo sguardo di chi lo sta ascoltando, ad aprire una piccola porta nella sua mente, e forse anche nel suo cuore, permettendo a quel ragazzo o a quella ragazza, un giorno, di salvarsi. Insegnare nozioni o suscitare passioni, è questo il grande discrimine. Accontentarsi di far ripetere a pappagallo le pagine dei libri di testo o far capire, invece, che lo studio della letteratura non è una scatola piena di dettagli noiosi ma qualcosa che parla alla profondità della nostra inquietudine e alle domande che ne scaturiscono. Letteratura come natura morta o letteratura come parte irrinunciabile della nostra vita.
Essendo cresciuta nel Nordest dove, all’epoca, i legumi mediterranei erano degli assoluti sconosciuti, mi sono interrogata a lungo sulla ragione per cui padron ’Ntoni ci tenesse tanto a un carico di lupini, cioè, per me, di piccoli lupi. Che cosa doveva farsene di quei cuccioli? Voleva introdurli in Sicilia? E per quale ragione? A parte questo enigma, che si è risolto soltanto quando, ormai maggiorenne, mi sono trasferita a vivere a Roma e ho scoperto che i lupini erano dei legumi gialli, della mia preparazione scolastica di letteratura non mi è rimasto praticamente nulla se non l’idea, radicatissima, che si trattasse di qualcosa di antiquato che non avesse nulla a che fare con la mia vita. Per riaccostarmi al Leopardi e nutrirmi della sua grandezza ho dovuto aspettare i trent’anni; per osare riprendere in mano I promessi sposi, e apprezzarli come meritano, ho atteso i quaranta.
Sono convinta che la ragione per cui il nostro Paese viene considerato la Cenerentola europea negli indici di lettura sia da ascrivere soprattutto alla diseducazione letteraria attuata nel percorso scolastico. Quante persone una volta terminate le scuole superiori, magari con ottimi voti, non si sognano più di aprire un libro, così come una buona parte dei laureati, una volta ottenuto l’ambito titolo, vengono colti da perpetua e inguaribile «papirofobia»?
Questa invincibile allergia alla carta stampata, quali che siano i suoi contenuti, non è forse dovuta — oltre che alla tendenza delle famiglie a non leggere e dunque a non stimolare i loro figli a farlo — anche al cronico fallimento della scuola che, in tanti anni di insegnamento, non ha saputo lasciare ai bambini e ai ragazzi, una volta diventati adulti, un solo germe di curiosità?
È la curiosità infatti la molla che spinge ad aprire i libri. Curiosità, voglia di saperne di più. Il discorso non è limitato alla letteratura. Si può essere curiosi di storia, di biologia, di matematica, di geografia, di filosofia. Una persona curiosa ha un grande pregio: non si farà mai ingabbiare dalle spire del fanatismo. La curiosità infatti è il principale antidoto all’indottrinamento.
Lei regala, così mi scrive, a ognuno dei suoi alunni all’inizio di ogni anno scolastico una copia delle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke. E la regala anche se i suoi ragazzi non sono studenti di un liceo ma di un istituto tecnico, suscitando ironia e critiche dei colleghi, vittime del solito snobismo provinciale per cui la cultura dovrebbe essere appannaggio solo di chi frequenta il più nobile liceo, mentre le lande desolate degli istituti tecnici dovrebbero servire solo a traghettare i ragazzi al mitico foglio di carta, offrendo una preparazione che già in partenza viene considerata di serie B.
Perché mai, si chiede e mi chiedo, chi frequenta un istituto turistico, un alberghiero, un professionale non dovrebbe essere messo in grado di leggere e apprezzare un poeta, di capire che cosa sia la poesia? Saper percepire la bellezza deve essere forse il privilegio di un’élite?
Tra le molte piaghe della scuola italiana, forse una delle più gravi è proprio quella dell’inossidabile mito del liceo. Si ingannano le famiglie facendo loro credere che esistano scuole di prima e di seconda scelta. Il liceo — scientifico, classico, linguistico — viene considerato automaticamente più nobile, in grado di aprire le porte dell’università.
Nel nostro Paese ci sono migliaia e migliaia di posti di lavoro vacanti per mancanza di persone tecnicamente preparate, a causa della carenza di veri percorsi professionali e formativi, e altrettante migliaia di liceali che camminano verso il nulla con il loro bel pezzo di carta in mano. Né agli uni né agli altri, a meno che non abbiano avuto la fortuna di incontrare un’insegnante entusiasta e coraggiosa come lei, è stata data la possibilità di accedere davvero alla cultura; dove cultura vuol dire curiosità, capacità di appassionarsi, di ragionare, mantenendo sempre la mente in una condizione di apertura.
Ho diversi amici che insegnano, come lei, negli istituti tecnici e i racconti che mi fanno sono per lo più desolanti. Malgrado l’impegno e l’amore che mettono nel loro lavoro, si sentono spesso circondati da un clima di fatale disfattismo. Una mia amica, scoprendo che gli studenti dell’ultimo anno giocavano a carte durante le sue lezioni, è andata a parlare col preside per capire come comportarsi. «Li lasci fare» si è sentita rispondere «tanto sono abituati così. E poi sono in quinta, quest’anno se ne andranno…». La solita tecnica dello scaricabarile: foglio di carta in mano e via. Non mi riguarda più.
Ma i ragazzi-peso, una volta scomparsi dall’orizzonte, dove vanno? Diventano per lo più ragazzi-zavorra. Zavorra buttata a mare. O meglio, ragazzi-risacca: si fanno trasportare dalla corrente perché nessuno ha mai dato loro importanza, e questa assenza di importanza — e dunque di peso — li rende incredibilmente leggeri. È una leggerezza ingannevole, la leggerezza del nulla saper fare, del nulla sperare, del nulla desiderare. Una leggerezza che, in breve, si trasformerà in una inesorabile pesantezza. Pesantezza sociale, pesantezza individuale.
Che cosa faranno, una volta diventati adulti, questi ragazzi da cui nessuno ha preteso niente, che nessuno ha mai davvero visto? A quali povertà li condanna la scuola del non-impegno e della promozione perpetua? La scuola che non ha mai messo davanti a loro gradini, ostacoli, asticelle da superare? Alla povertà economica, probabilmente, a quella sociale anche ma, più di ogni altra cosa, li condanna alla povertà umana, cioè alla totale sfiducia in loro stessi e nella propria capacità di affrontare e risolvere i problemi.
I dieci anni di scuola obbligatoria rimarranno, nella memoria dei più, come un lungo e grigio inverno di cui non aspettavano altro che la fine. Avranno messo crocette per anni, si saranno arrabattati confusamente tra le prove Invalsi, avranno imparato qualche data a memoria, per dimenticarla a interrogazione conclusa e, navigando con i motori al minimo, saranno andati avanti così, di anno in anno.
Certo, non si può ignorare l’irrompere tumultuoso della tecnologia nella vita delle nuove generazioni e nella nostra. Un irrompere che ha creato un mondo parallelo a quello reale, un mondo segnato dalla facilità e dall’immediatezza, dalla superficialità e da una fallace onniscienza. Nei primi anni di questa rivoluzione, mi è capitato di leggere tesine delle scuole medie o delle superiori e di restare ammirata per la quantità di nozioni esibite e per la complessità dello svolgimento. Nella mia ingenuità analogica, mi sperticavo in complimenti con chi le aveva scritte ma il mio stupore ammirato era sempre destinato a essere di breve durata. Parlando, infatti, dell’argomento che avevano esposto, mi rendevo presto conto che quello che c’era scritto non corrispondeva a quello che lo studente davvero aveva appreso. Era iniziata l’era del «copia e incolla» e io non me ne ero accorta.
È vero che la tecnologia porta una grande ricchezza nelle nostre vite ma, perché ricchezza davvero sia, bisogna imparare a usarla. Usarla e non esserne usati. Consentire gli smartphone in classe è pura follia, così come sostituire i libri di testo con l’uso del tablet. In molti Paesi europei, dove l’innamoramento per le tecnologie a scuola è arrivato prima che da noi, si stanno rivalutando la scrittura a mano e lo studio sui libri, anche come antidoto alle gravi dipendenze da schermo e da social che le nuove generazioni sviluppano in modo allarmante. Secondo una ricerca molto dettagliata del Miur basata sui test Pisa del 2015, gli studenti italiani con i migliori punteggi nella lettura digitale sono quelli bravi anche nella lettura cartacea e, viceversa, quelli con difficoltà nella lettura cartacea non capiscono nemmeno i testi digitali. Il nostro ministero, che in controtendenza si è lanciato con sventata allegria nella rincorsa alla modernità, senza approfondire i molti studi sulla negatività di certe scelte, non ha considerato che al limite le due vie — tecnologica e umanistica, diciamo — possono procedere parallele, arricchendosi una con l’altra. Ma così non è stato. Dato che il suo compito, da ormai troppo tempo, è quello di rendere le cose sempre più facili, di non creare ostacoli, di permettere a tutti di raggiungere l’agognato pezzo di carta — perché questa è la più alta e più perversa forma di democrazia — non poteva fare diversamente.
Non creare problemi, questa sembra l’unica preoccupazione della scuola-azienda, della scuola-centro commerciale, con vetrine sempre più sfavillanti per attirare i clienti. «Avremmo dovuto bocciare molti in quella classe, non ammetterli nemmeno alla maturità» mi ha confessato un giorno un’amica «ma non abbiamo potuto farlo. Siamo un piccolo istituto tecnico di provincia. Ogni allievo è prezioso per non chiudere e, se chiudiamo, perdiamo tutti il posto».
Ma promuovere gli ignoranti e i negligenti, le persone che si preparano per un mestiere per cui non avranno la minima competenza è davvero un rendimento, o è piuttosto un fallimento? Un rimandare la resa dei conti offrendo una colossale presa in giro dei ragazzi e delle loro famiglie? A quale efficienza mira questo sistema? Direi soltanto a quella delle statistiche. Tot iscritti, tot promossi. La scuola funziona!
Se si risvegliasse don Milani, che cosa direbbe della scuola di oggi? I «Gianni» che all’epoca venivano ripetutamente bocciati ora non incorrono più in quell’onta, in quello stigma sociale. Tutti promossi, ma con una promozione che ha l’effetto di un boomerang. Colpisce e torna indietro lasciando a terra il corpo inerte. La parte importante del suo metodo — il lavorare insieme creando un sapere che nasce dalle domande, dunque maieutico — è stata rapidamente archiviata. Travisato e manipolato, è rimasto soltanto il diktat: non bocciare i Gianni! Senza che nessuno abbia mai alzato la mano per dire che in questo sistema le vittime sono proprio loro, i Gianni, costretti a rimanere tali per sempre, mentre gli odiati «Pierini», i ricchi, i privilegiati, continuano imperterriti per la loro strada. Una strada fatta di sezioni migliori, di possibilità di ripetizioni, di scuole private, di soggiorni all’estero, di famiglie capaci di stimolarli, sottraendoli al giogo omogeneizzante imposto dai media.
Forse a questo punto si stupirà di sentirmi parlare con tanto fervore di scuola e di educazione, in fondo non dovrei occuparmi di letteratura? In realtà, prima di scrivere, per una parte importante della mia vita ho pensato che la mia vocazione fosse proprio l’insegnamento. Ho frequentato l’istituto magistrale — quello che ha formato le maestre che hanno alfabetizzato l’Italia — e, negli anni dei miei studi pedagogici, mi sono infiammata per Pestalozzi e Fröbel, per don Milani e Rousseau, per la Montessori e per tutte le teorie che, a quel tempo, aprivano nuovi orizzonti nel campo educativo.
Alla base della mia passione c’erano due forze che si completavano a vicenda: le grandi sofferenze patite sui banchi e la convinzione che occuparsi dell’ottimale sviluppo delle persone fosse il punto cardine di una società che vuole continuare a crescere nella luce della civiltà. Non avevo — e non ho — alcun dubbio sul fatto che abbandonare l’idea della centralità dell’educazione voglia dire spalancare la porta alle barbarie.