I democristiani erano insuperabili, nell’arte di non rispondere alle domande. “Presidente, si rende conto che ci sta parlando da un quarto d’ora senza dirci assolutamente nulla?” chiese una volta ad Arnaldo Forlani un impertinente giornalista. “Potrei continuare per delle ore”, rispose lui, serafico. Però parlavano, i democristiani. Non si nascondevano.
Matteo Salvini invece finirà nel Guinness dei primati come il ministro italiano che è riuscito a non rispondere al maggior numero di domande (e per il secondo tempo più lungo, dopo il record di Silvio Berlusconi).
Su Facebook fa lo spavaldo, ma alla prima contestazione, alla prima accusa, alla prima domanda, lui scappa. Cercando ogni volta una nuova scusa, un nuovo pretesto, per evitare il confronto con la realtà.
Puntualmente, quando il nodo arriva al pettine lui ha sempre qualcos’altro da fare. Qualcosa di più urgente, di più importante, di più impellente che spiegare l’ultimo pasticcio che ha combinato al Viminale, in spiaggia, su una nave militare o a Mosca.
Così, quello che all’inizio sembrava solo l’imbarazzo di chi, preso alla sprovvista, non sa come cavarsi d’impaccio, a poco a poco si è rivelato un metodo: il metodo del fuggitivo.
Il copione infatti è sempre lo stesso. C’è una prima scena in cui lui fa lo spaccone, dice “me ne frego” e sghignazza in diretta video. E poi c’è la seconda parte, quella della fuga con inseguimento, che adesso prevede anche l’irrisione pubblica dei giornalisti che osano fare il loro lavoro: fargli le domande.
Ricordate la diretta Facebook in cui lui aprì – davanti ai suoi tre milioni e mezzo di follower – la busta con l’avviso di garanzia per sequestro di persona, per la nave Diciotti?
Aveva la baldanza di un Trump senza ciuffo, con lo studio all’ultimo piano del Viminale al posto dell’Oval Office, e beveva una lattina di aranciata mentre strappava la busta della Procura di Catania, poi appendeva la lettera al muro (“È come una medaglia”) e mostrava quello che la retorica chiama un supremo sprezzo del pericolo: “Rischio quindici anni di carcere? Pazienza, mi verrete a trovare a San Vittore”.
Seguì, qualche mese dopo, la seconda scena: quella di un Salvini che chiede al Senato di evitargli il processo con la voce rotta, “perché sto parlando di un reato”, e grazie al soccorso giallo dei grillini evita di dover rispondere al Tribunale dei ministri.
Stesso copione quando è scoppiato lo scandalo Moscopoli. Prima minacciava querele a tutto il mondo, “perché non ho preso un rublo, un euro o un dollaro dalla Russia”. Poi, quando è fallito il tentativo di disconoscere l’amico Savoini, è diventato accomodante: “Vado in Parlamento e rispondo a quello che mi chiedono”. Ma alla fine ha fatto dietrofront, fuggendo.
“Non vado in aula a parlare di fantasie”, ripeteva, e quando Conte ha rivelato al Senato che “il ministro competente” (cioè lui) “non ha fornito informazioni” si è inventato una riunione al Viminale per disertare la seduta.
Qualunque sia la domanda, se la faccenda è imbarazzante il leader leghista si rifugia dietro una battuta. La Corte dei Conti apre un’inchiesta dopo che Repubblica ha scoperto che il ministro ha utilizzato i voli di Stato per i suoi spostamenti nella campagna elettorale? “Non rispondo agli insulti” commenta lui. La Commissione europea boccia la manovra di bilancio italiana? “Non rispondo agli sproloqui di Bruxelles”. Il commissario Pierre Moscovici gli rimprovera di far salire lo spread? “Non rispondo a Moscovici”.
Salvini, insomma, non risponde a nessuno. Neanche ai suoi followers di Facebook, le cui domande vengono automaticamente bloccate se contengono le parole proibite contenute nella blacklist segreta, come “49 milioni” (quelli spariti) o “Siri” (quello indagato). Lui che nei suoi videomessaggi ripete sempre “che ne dite, amici?”, accetta solo elogi e complimenti.
E se non risponde ai suoi fan, figuriamoci a quei rompiscatole dei giornalisti, che osano domandargli come spiega che il suo amico Savoini chiedesse soldi agli amici russi, o chi ha ordinato di identificare minacciosamente il videomaker che documentava la gita fuori ordinanza del suo figlio sedicenne sulla moto d’acqua della polizia.
Se poi non basta la risposta standard, “Non parlo di figli e di bambini”, nonostante le infradito il ministro è capace di aggredire con allusioni da caserma il cronista che osa insistere. Fuggendo subito via, prima che qualcuno possa domandargli cosa ci facesse a Bibbiano dieci giorni fa, lui che di figli e di bambini non parla.