di Claudio Magris
«Mio padre — disse una volta Linuccia Saba — sa amare, ma non sa voler bene». Saba ha certamente amato Federico Almansi, il «ragazzo celeste» per il quale ha scritto, nelle sue tarde raccolte, alcune delle più alte poesie d’amore d’ogni tempo, insostenibili e insieme classicamente ferme e terse. «O tu che contro me vecchio nel fiore/ dei tuoi anni ti levi (…) è forse il mio incauto amarti un sacrilegio?…». È per lui — Narciso al fonte nella cui immagine Saba vedeva pure la sua propria adolescenza, «gatto in vista selvatico (…) temeva/ castighi a occulti pensieri», Ganimede rapito dall’«aquila fosca» — che egli ha scritto alcune delle poesie più belle non solo sue, ma di tutto il Novecento.
Questa storia celeste e cupa è intessuta di straziante, torbida e in certi momenti grottesca ma non perciò meno sconvolgente tragedia. La ricostruisce ora narrativamente il forte libro di Emilio Jona, Il celeste scolaro , dedicato alla vita e alla smilza, ma notevolissima opera poetica di Federico Almansi, che contemporaneamente viene pubblicata a cura di Francesco Rognoni, con una sua illuminante premessa e un’ancor più illuminante nota finale ( Attesa. Poesie edite e inedite ). C’è una cosa di cui non posso e non potrò parlare — diceva Nora Baldi, che fu vicinissima a Saba negli ultimi anni e lo capì come forse nessun altro — ed è la sua storia con Federico Almansi. Una storia a lungo taciuta, cui per molti anni si alludeva con cautela e soggezione, senza conoscere, per parecchio tempo, le poesie nate da quella storia e pubblicate solo più tardi.
Ora se ne parla, sentendo pure la voce poetica di Almansi, ma di quella vicenda celeste e infera, della sua verità, si sanno molti dettagli ma si sa in fondo poco. Del resto — ricorda Stelio Mattioni nella sua biografia del poeta triestino — il cugino Giorgio Fano, profondo filosofo del linguaggio, diceva «di Saba si sa poco, ma meno si sa e meglio è». Saba conobbe Federico Almansi quando quest’ultimo aveva dieci anni, nel 1934 a Padova; il padre, il libraio antiquario Emanuele Almansi, era un suo vecchio amico, ossessionato dalle ombre di tare psichiche ereditarie e anch’egli profondamente disturbato. Aveva voluto sposare una contadina, Onorina, sperando che, secondo le confuse teorie ottocentesche, il fresco sangue campagnolo avrebbe rinnovato e purificato quello malato e stanco della sua famiglia. Era soprattutto ossessionato dal timore che il figlio Federico fosse vittima di questa eredità di follia.
Saba frequenta la famiglia Almansi a Padova e, dopo la guerra, a Milano dove abita per lunghi periodi nella loro casa zeppa di libri, dormendo nella stanza insieme a Federico. «Senza scabrosità», scrive Rognoni, evocando tuttavia la poesia di Almansi Quando scendeva la notte d’amore . L’aspetto inquietante non è l’omosessualità, praticata o no, bensì l’ambiguità e l’oscurità di quei rapporti, che si affiancano alla tersa, dolorosa e luminosa chiarità delle poesie di Saba e pure di quelle, alcune delle quali bellissime, di Almansi, nate certo dalla sua fluttuante inquietudine, ma anche dalla lezione e dall’incoraggiamento di Saba, che nel 1948 lo spinge e lo aiuta a pubblicare, con una sua prefazione, il suo primo volume di versi.
Non interessa indagare o spiare quel rapporto, che in primo luogo, sostiene Jona, sembra essere il rapporto socratico tra maestro e discepolo e, investendo la poesia, non può non investire la complessità dei sentimenti, dei desideri, delle delusioni, delle ambigue rivalità — ad esempio il latente conflitto di Saba col padre di Federico, pur suo amico, al quale viene ambiguamente quasi sottratto il ruolo paterno. L’aspetto più inquietante è forse l’intreccio di generosità e rapacità in Saba, che sembra quasi covare il ragazzino incombendo sul suo futuro e che gli è guida nella poesia, con un’infallibile maestria che è insieme folgorazione dei Numi e sapiente mestiere, ma non senza una punta di gelosia per il dono che le Muse hanno fatto al ragazzo. C’è in Saba una «taciuta brama» della «calda vita», che egli ha scrutato e cantato come forse nessun altro e che è anche brama di possesso esclusivo. «Ero ghiotto solo di anime umane — Saba scrive a Noretta, ossia Nora Baldi —. Come un’aquila mi sarei precipitato sull’agnello, ma non per divorarlo, oh no».
Probabilmente, invece, anche per divorarlo; il desiderio, la «taciuta brama» è pure il fremito del gatto che guarda il topo ed è pure la malinconia di chi vorrebbe avere tutta «la calda vita». Saba era quello che Nietzsche — che egli capì a fondo più e soprattutto prima di tanti, di quasi tutti gli altri — avrebbe voluto essere: aldilà del bene e del male, innocente come la vita ignara del bene e del male, come il bambino che strappa il giocattolo a un altro bambino, indifferente al suo pianto. L’infelicità e il senso di abbandono conosciuti sin dalle sue origini gli avevano lasciato un bisogno insopprimibile di prendere, di essere amato e viziato, di ricevere. Tu sei nato innocente e morirai innocente, gli disse una volta Nora Baldi — la terribile, dolorosa, spietata innocenza della vita. È difficile sapere se il celeste Federico, proprio perché così intensamente e dolorosamente amato, sia stato o no anche l’agnello tra gli artigli dell’amorosa aquila. Probabilmente tutte le figure dell’amore, le indimenticabili donne cantate nel Canzoniere , erano volti di quella «antica brama» che è «della vita il doloroso amore», come dice il verso finale dell’altissima lirica Ulisse .
Nessuna singola figura può esaudire il desiderio e la nostalgia, perché ognuna è un volto della calda vita che presto trascolora in un altro, diverso e identico come la rosa che è fiorita in Dio sin dall’eternità, dicono i mistici, e che forse è la stessa amata nel rosaio l’anno prima o è un’altra nata da quella, senza che ciò faccia differenza per chi la guarda e la ama. Ogni particolare, ogni istante chiede che si ami Dio in lui. Tutto sta eterno davanti allo sguardo di Dio — dice la bellissima Suleika in una poesia di Goethe — amaLo in me, per questo istante. Eppure Saba — nevrotico, egocentrico, avido, prepotente, infantile, pauroso, esperto di passioni interiormente estreme — è anche il poeta più classico del Novecento, più capace di far sentire sentimenti sereni e perenni come ad esempio l’amore coniugale. Ernesto , il romanzo a lungo segreto per la sua tematica omosessuale affrontata senza remore, doveva essere, nel progetto di Saba, il capitolo iniziale di un romanzo di formazione, che conduceva il protagonista dall’indistinta sessualità dell’adolescenza alla scoperta delle donne e infine dell’amore duraturo e completo per la donna della propria vita, la donna amata in giovinezza accanto alla quale, come Saba ripeteva citando Salomone, mangiare in pace il pane nella vecchiaia. Per questo è un poeta classico, i cui versi vengono spontaneamente alle labbra quando ci si innamora, ci si perde nella solitudine, si è sgomenti o felici.
Se Saba voleva pure essere il maestro socratico di Federico, in parte ci è riuscito, perché le poesie di Federico, che ora possiamo leggere nella loro breve totalità e nella loro sequenza, hanno una straordinaria, musicale e profonda leggerezza, esperta del dolore, e fanno di lui uno dei nostri autentici, veri poeti. Ma la vita sa essere pure tragica e talora tragicamente farsesca devastazione. Un anno dopo la pubblicazione delle sue Poesie , Federico inizia il suo calvario attraverso sempre più gravi disturbi psichici, ricoveri, alterazioni della sua personalità. Nel 1952 il padre, disperato di vederlo cadere nella follia, cerca di ucciderlo sparandogli mentre dorme ma ferendolo solo leggermente e fallendo subito dopo pure nel tentativo di suicidarsi; quando arrivano la polizia e l’ambulanza, trovano i due, lievemente sanguinanti, che si abbracciano piangendo.
L’unica a morire — d’infarto — sarà, poco dopo, la madre di Federico, Onorina, la donna semplice e sana che avrebbe dovuto arrestare il destino. Onorina, che detestava Saba e considerava la sua presenza angosciante per il figlio, distrusse le molte lettere scritte a Federico dal poeta, che disse più tardi di considerarle il suo capolavoro poetico. Anche se fosse così, il gesto di Onorina non sarebbe da deprecare né tantomeno da condannare, perché aiuta a mantenere questa tragica vicenda in quel tanto d’ombra che le compete.
Già al processo al padre, Federico era spento e appesantito; il ragazzo celeste era divenuto — scrive Jona — «una di quelle creature dell’uniformità e dello squallore, che popolano l’istituto manicomiale». Tutta la successiva esistenza di Federico, l’angelo in cui Saba aveva riposto speranza da venire, è un opaco spegnersi. Ma in quegli anni di sofferto ottundimento, non fu Saba a essergli particolarmente vicino. Forse perché, per farlo — cosa in sé assai pesante e difficile — occorreva saper non soltanto amare, ma anche e soprattutto voler bene. A essergli vicino, ad aiutarlo, fu Lelia Maggioni, una donna che il padre di Federico aveva conosciuto, uscito dal carcere e dal manicomio, dopo la morte della moglie e che divise con lui gli ultimi anni, occupandosi con semplice e intenso affetto del proprio marito, anch’egli gravemente malato di mente, Emanuele Almansi, e soprattutto di Federico, con quella spontanea generosità che è il sale della terra e forse redimerà l’invivibile vita, se è possibile una sua redenzione.
E con Lelia, fedele al dramma e allo spegnersi di Federico fu Emilio Jona, l’autore del libro che oggi ricorda con amore e asciutta intensità quella storia di devastazione e che fu uno dei tre che accompagnarono Federico alla tomba alla fine del dicembre 1978, recitando per lui il Kaddish , la preghiera ebraica per i defunti. Un Kaddish può valere più di una grande poesia.