In epoca di duraturi e devastanti contagi, gli atti di ciascuno, nel volgersi della giornata, subiscono costrizioni e si bloccano a fronte di insormontabili divieti, pena la vita. Interdetto l’andamento consueto delle relazioni con gli altri; ridotto o interrotto o esasperato il corso delle attività lavorative e degli impegni; sottoposti a dura prova, così, gli equilibri della tenuta personale lesa nei sentimenti e nel compenso rassicurante degli affetti. Infrangere, conculcare, ledere, violentare, coartare: queste, ed altre dal medesimo significato, le voci verbali che danno conto adeguato delle condizioni di vita di ciascuno, in stato di perdurante pandemia.
E ogni coercizione che sovrasti comporta che ciascuno provi un senso di impotenza, il ritrovarsi in una sorta di isolamento che le telecomunicazioni non spezzano. Una condizione che induce a reazioni più o meno consulte, ma tuttavia motivate (e profondamente) dallo sconforto, dall’avvilimento, dalla frustrazione, dall’insicurezza. Tutti sentimenti che generano e a gran forza alimentano la paura.
La paura. Dallo sgomento al panico. Dal panico alle fobie. E solo nella dimensione fobica molti cercano (e alcuni – molti – riescono a trovare) le risposte alle domande impegnative che ci pongono le dure prove e i crudeli rischi che la condizione del contagio epidemico tassativamente a ciascuno impone.
La fobia semplifica gli scenari orribili, feroci e mutevoli della pestilenza Essi richiedono un uso colto dell’intelligenza intesa ad ulteriori acquisizioni di conoscenza E consapevolezza e doti di prudenza, nel pubblico e nel privato, capaci di tradursi tanto in interventi tempestivi ed efficaci, quanto in comportamenti meditati ed accorti. La fobia gela l’intelligenza e costruisce asserzioni apodittiche. Ad esse si affida il compito di fugare d’incanto ogni paura: non rivelano forse in piena luce quanto agiva contro di noi di nascosto, protetto dalla cortina di buio che ad arte avevano innalzato per tenerci nell’oscurità? Confortante il balsamo della idiozia che naviga da sempre il mondo.
Essa riveste e tonifica la più o meno labile, ma ben riconoscibile e diffusa, isteria da angoscia che attraversa le vaste platee minacciate dal Corona virus. Un vento sospinto dalle certezze di ieri, oggi provvisorie evidenze di fatto da utilizzare come luoghi comuni. L’angoscia e le sue conseguenti reazioni, che erano calate stamani e stasera tornano a crescere, aiutate da notizie contraddittorie, fomentate da disposizioni e da normative malamente stabilite e che spesso, e facilmente, sono revocate in dubbio dall’istituzione medesima che le ha appena promosse.
La paura fobica attestatasi in alcuni gangli dell’Italia della pandemia vive di antiche subculture e ne produce di nuove. È un fatto che troppi esponenti politici italiani mostrano di essere espressione delle filiere subculturali che contrassegnano il nostro paese. Dico quella speciale forma di incultura nazionale che ha guadagnato campo, nelle arti e nelle scienze, con velocità crescente da un trentennio in qua e, da dieci anni almeno, è rinvigorita dal formidabile supporto che le proviene dal digitale e dai social, nel progressivo, inarrestato degrado della istruzione nelle scuole e degli studi nelle università. Una schiera numerosa quella formata da esponenti politici che rivestono i ruoli delle più elevate responsabilità amministrative e di governo, senza possedere i rudimenti d’una educazione civica elementare.
Negli ormai quasi due anni di pandemia, con maggiore efficacia si sono animati i bassifondi malsani, là dove giacciono le scorie, i residui grezzi, i detriti degli ideali politici del Novecento. Ecco che i lunghi mesi dell’epidemia e le difficoltà e i costi della sua gestione e il livello inadeguato dei politici in auge, hanno depositato in non irrilevanti comparti della società italiana fobie tali da esser compatibili (e talora propense a riconoscersi) con quei detriti, quei residui, quelle marcite scorie.
Sabato 9 ottobre di questo 2021, secondo anno di epidemia, abbiamo assistito a Roma a questo congiungimento, innescato nei termini di una esasperata velleità insurrezionale. Velleità, al momento.