È tra i più grandi direttori della fotografia del cinema Lavora con i Coen e Sam Mendes e ha vinto due Oscar Per anni ha tenuto segreti i suoi scatti, raccolti per mezzo secolo Ma adesso l’opera nascosta di questo ex ragazzo del Devon è diventata un libro collezionato dalle star di Hollywood
di Dario Pappalardo
Questo signore in maglietta che compare su Zoom seduto nella sua casa di Santa Monica è uno dei più grandi maestri della luce che il mondo conosca.
Roger Deakins ha una faccia che sembra l’incredibile risultato di un mix tra Robert Redford e Max von Sydow. È sua la fotografia dei migliori film occidentali degli ultimi quarant’anni: da quelli dei fratelli Coen ( Fargo e Il grande Lebowski compresi) ai titoli di Sam Mendes.
Vanta quindici nomination all’Oscar e due statuette (per Blade Runner 2049 e 1917) ritirate con timidezza, understatement e quella stessa aria dimessa con cui ora dice: «Per carità, non sono un fotografo». Niente di più falso. Basta aprire Byways, il libro in uscita da Damiani, per rendersi conto del contrario. L’opera, attesissima negli Stati Uniti, è già stata prenotata da mezza Hollywood. Finirà sui tavolini dei salotti delle star. Per Deakins, a 72 anni, si tratta di un “esordio” come still photographer.
Ma, sfogliando le pagine, ci si accorge che neanche questo è vero. Perché il primo scatto è del 1969 e la macchina fotografica ha accompagnato ancora prima di quella da presa il ragazzo britannico nato nel Devon rurale.
Buona parte del libro è proprio un omaggio a quel mondo contadino, fatto di fiere del bestiame, natura, tradizioni e spiagge sulla Manica.
Sono “strade secondarie”, come suggerisce il titolo, che si adatta alla personalità schiva del suo autore.
È un tributo alla sua giovinezza, Mr Deakins?
«In parte sì, ma c’è anche dell’altro.
Quelle immagini sono come il materializzarsi di una sliding door, di una vita che avrei potuto vivere e che non ho vissuto. Negli anni Sessanta, volevo essere pittore, fotografo… poi ho scoperto i film.
Ma ho fotografato per tutta la vita senza essere un professionista.
Quando non lavoro per un film, prendo e mi metto a scattare».
Sembra tenere deliberatamente separata la fotografia dalla vita sul set. Nelle sue foto, non c’è traccia dei film, né delle star. Ci sono luoghi – il New Mexico di “Sicario”, la Germania di “The Reader” – ma niente backstage.
«Assolutamente. La mia fotografia è il prodotto di un tempo vuoto. Se scattassi sul set, mi distrarrei dal mio lavoro: sarebbe inaccettabile».
In un mondo pieno di immagini, quali sono quelle che meritano di essere catturate?
«È vero, siamo inondati dalle immagini. Ma per questo è sempre più difficile trovare quelle che possano darci piacere. La mia raccolta di fotografie è frutto di un gusto personale. Si tratta di piccoli momenti, di modi di vedere un luogo. Per me conta che un’immagine sia dinamica ed evocativa».
Com’è un’immagine evocativa?
«È un’immagine che rimanda al senso del tempo, catturando qualcosa di immateriale. Nel libro c’è forse la mia prima fotografia, scattata nel 1969. Si vede una donna in lontananza sulla spiaggia di Bournemouth, in Dorset. In primo piano ci sono le sedie sdraio piegate, messe una accanto all’altra. Ecco, quell’immagine rimanda alla solitudine, al tempo che scorre. La cosa curiosa è che di recente ho ripercorso lo stesso itinerario, fotografando proprio quell’area e il risultato è molto simile. Incredibile».
La foto del cane che salta sembra il rimando a un’immagine famosissima di Elliot Erwitt.
«Davvero? Non lo so. Non me ne sono reso conto, non credo di avere uno stile preciso. Quello che fotografo è frutto di incontri accidentali, sono momenti di vita vissuta con la macchina fotografica».
Le foto del libro sono tutte in bianco e nero.
«I colori distraggono. Il bianco e nero è puro: ti permette di cogliere meglio l’azione della luce. Sul set la mia è una battaglia per controllare il colore del film. Nella fotografia preferisco eliminarlo».
Qual è il suo rapporto con la luce?
«Amo la luce, sembra banale dirlo ma è il motivo per cui preferisco lavorare con luce e scenari naturali. Mi piace usare la luce che trovo, come è successo con 1917 di Sam Mendes».
È la fotografia che ha più influenzato il suo cinema o viceversa?
«Sono due arti che funzionano in modo molto diverso. Di certo, è dalle esperienze giovanili con la fotografia che ho imparato qualcosa da portare nel cinema.
All’inizio della carriera, ho girato documentari e le mie foto hanno comunque un che di documentaristico. In ogni caso, un film è sempre il frutto di una collaborazione: senza la squadra non si va avanti. Sono felice di lavorare con le stesse persone da decenni, come Joel ed Ethan Coen o Sam Mendes, con cui girerò il prossimo film. La fotografia, invece, sono io e basta: ogni scelta è frutto di una decisione individuale».
Si sente a suo agio nell’era digitale?
«Ormai sì. Ovviamente provo un po’ di nostalgia per la semplicità di certi film. Per il tempo in cui avevamo a disposizione solo una quantità limitata di pellicola e non un ammontare infinito di pixel. Ma il mio modo di lavorare, alla fine, è sempre lo stesso. Con la differenza che posso vedere subito il risultato del mio lavoro, sia sul set che quando sono solo con la macchina fotografica».
Che cosa resta di quel ragazzo del Devon che dormiva sulla spiaggia, aspettando la luce giusta per scattare le fotografie?
«Vado ancora a pescare di notte, prima dell’alba. Vivo tuttora in Devon per una parte dell’anno, ma poi torno a Santa Monica perché è dura stare lontano dall’oceano: insomma, sono sempre la stessa persona».
Il 16 settembre a lei che non ama il palco toccherà presentare il suo libro al Mast di Bologna. È diventato ufficialmente un fotografo, oltre che un direttore della fotografia da Oscar.
«No, non presenterò niente, per carità. A Bologna mi metterò lì in un angolo…».