L’uomo senza qualità, il romanzo-mondo di Musil, è una sorta di catalogo del disincanto. Tutto, delle mediocrità umane, viene osservato sotto un’impietosa lente d’ingrandimento. Qui, per esempio:
Intorno al ministro della Guerra e a Feuermaul […] si era formato un gruppo, e in esso Feuermaul dirigeva animatamente la conversazione all’insegna dell’amore per l’umanità intera. […] Il conte Leinsdorf chiese: “Mi dica, chi è veramente questo Feuermaul?”. “Il padre ha parecchie fabbriche in Ungheria” rispose Ulrich. […] “Se il padre è povero, i figli amano il denaro; se il padre ha denaro, i figli amano l’umanità”.
Robert Musil
La lapidaria sentenza di Ulrich basta, da sola, a spiegare tutto il fermento sociale che ribolle a sinistra di questi tempi: dal ritrovato antirazzismo all’inutilissimo ddl Zan. Feuermaul figlio propaganda un “capro amatorio” – così lo chiama Musil – una narrazione di buone parole e buoni sentimenti rivolta alla generica, astratta umanità; intanto, nelle fabbriche di Feuermaul padre gli operai muoiono per avvelenamento da fosforo. Allo stesso modo, il balletto patetico dell’attivismo liberal ha sullo sfondo il paesaggio con rovine di una società sempre più iniqua. Non è, ovviamente, solo questione di soldi: il privilegio dei “buoni” è ontologico – il privilegio di sentirsi sempre, incrollabilmente dalla parte giusta.
C’è un paradosso quasi tragico all’opera: antifascisti, eroi LGBT, imbrattatori di statue, sardine assortite, mentre si agitano scompostamente per cambiare il mondo garantiscono proprio che il mondo non cambi mai. La politica, l’economia, appoggiano questo florilegio di nulla amorevole e così se la cavano a buon mercato, come quando si recita qualche Ave Maria e poi si torna a peccare. Pensiamo alla faccia di bronzo con cui Coca Cola, dal basso del suo girone infernale di evasione fiscale e olio di palma, accusa Facebook di non censurare abbastanza. Pensiamo a Benetton, che celebra l’antirazzismo in mezzo ai fantasmi umiliati del Rana Plaza. Ma vale anche in direzione opposta: il rapporto fra il capitalismo assoluto, come modo di vita prima ancora che come sistema economico, e la new left è simbiotico. I supergiovani dei collettivi universitari col loro Gramsci capito male, “le signorine che vogliono fare un sacco di cose ma non ne sono in grado”, autrici di innocui articoli di denuncia su allineati giornali alternativi: sono i campioni di questo mondo, le sue icone – istruiti quanto basta per sentirsi compiuti, rincorsi dai pubblicitari, apprezzati dai vecchi col rimpianto della giovinezza. Non un estremo del dibattito: gli autoproclamati umani, quelli che hanno ragione a prescindere, profeti di un futuro stagnante che non è necessario arrivi, purché lo si racconti, se ne faccia mitologia.
Che hanno, questi fighetti, da spartire con George Floyd? George Floyd era un criminale: e non suoni, sia chiaro, come un’accusa. Soffocato dalla sua storia ancor più che dal suo assassino, aveva subito nove arresti – per rapina a mano armata, spaccio di droga – era precipitato dal lato oscuro della vita, annaspava per stare a galla da molto prima che gli fosse negato il respiro. L’alterità fra lui e ”voi che vivete sicuri” è assoluta, incolmabile: i privilegiati che oggi cianciano di antirazzismo, e ieri cianciavano di accoglienza, rifiutano persino di trattare questa alterità come un problema. Non la incidono con la sensibilità letteraria di Pasolini, non la rinnegano con le forza radicale di Giangiacomo Feltrinelli. La ignorano. Così come la stampa mainstream ha in larga parte ignorato la fedina penale di Floyd: paternalisticamente, perché il santino non avrebbe retto il peso dell’uomo. Con la stessa identica superficialità i media alt-right hanno, invece, sparso fango sulla bara, puntando al rigorismo borghese invece che al pietismo borghese.
Se accusiamo la sinistra, allora, non lo stiamo facendo da destra – almeno, non da questa destra. La accusiamo perché l’uguaglianza fra le etnie è una cosa troppo seria per lasciarla al Laboratorio universitario metropolitano, e l’uguaglianza tra i generi una cosa troppo importante perché se ne occupi Non una di meno. Perché quando un ivoriano arrostisce un gatto in mezzo alla strada e una delle seguaci di Mattia Santori dice di capirlo, non ha capito niente. Ed è ridicolo che lo pretenda: nella proliferazione di acronimi, sigle, classificazioni pseudosociologiche si perde, guarda caso, la differenza sostanziale fra chi mangia e chi no. Nell’Austria di Musil, la brava gente si adopera per festeggiare il settantesimo anniversario del regno di Francesco Giuseppe, trionfo di un mondo proprio mentre quel mondo cade a pezzi. La nostra tarda modernità prosegue, invece, la sua specie di vita, senza la minaccia di guerre che la sconvolgano: fine della storia, carcere da cui nemmeno l’immaginazione può evadere – e la nostra brava gente celebra con la più lealista delle contestazioni.
Se questa roba è tutta la rivoluzione che riusciamo a mettere insieme – la vernice rosa, Bella Ciao, i flash mob, gli asterischi antifascisti, l’illusione di cancellare l’odio per legge e il dolore della storia cambiando i nomi alle strade – allora il presente durerà mille anni. E forse è questo il punto: per esercitare il privilegio dell’avanguardia, il progressista non può permettere che il riflettore dell’avvenire illumini troppo oltre. Scrive Brecht:
Gli uni stanno nell’ombra
Gli altri nella luce
E si vedono coloro che stanno nella luce
E coloro che stanno nell’ombra
Non si vedono