Ripenso al Papa che mi disse “Riposeremo dopo”

di Paolo Rumiz
Mentre sotto la Bora di Trieste la gente fa la fila per la spesa, i primi presagi del dopo Assolutismo o diritti? Disuguaglianze o solidarietà? Predatori o raccoglitori?
U27 marzo na grande mano calda da contadino, che trasmette energia buona e ti dà la sveglia, già prima di passare al dialogo. Parlo di Francesco, il Papa. Il freddo e l’isolamento mi riportano alla mente il calore di quell’istante. Era il 18 gennaio, e fuori pioveva sul Cupolone. Ci parlavamo, e lui teneva la mia mano nelle sue. Ricordo ogni sua parola. La consapevolezza di doversi spendere, sapendo che «amore è rischio» e la fede non è «un’assicurazione sulla vita» che dà accesso esclusivo al cielo, perché «non serve amare Dio se non ami l’uomo». E poi quella risposta folgorante alla richiesta di risparmiare le forze, vista l’età: «Amico mio, la vita è fatta per essere bruciata, senza risparmio. Avremo tempo di riposarci dopo». La peste non era ancora arrivata, ma già era chiaro che non c’era tempo da perdere. Eravamo a un bivio senza ritorno tra vita e autodistruzione.
Oggi, con la morte in casa che falcia più di una guerra e con la fallimentare cultura del consumo che mostra di aver devastato clima, salute, e perfino la democrazia, l’aut-aut è ancora più chiaro. Assolutismo o riconquista dei diritti- doveri. Grande fratello o comunità. Privatizzazione o condivisione. Crescita delle diseguaglianze o solidarietà. Stato di polizia permanente o democrazia. Mondo di predatori o di raccoglitori. Potere di pochi o umanità. Cibi apolidi o chilometro zero, abbuffata o frugalità. È ancora possibile, ci si chiede anche, un compromesso fra questi due scenari?
«Ci mettiamo la mascherina perché prima avevamo il paraocchi », scrive in un amarissimo blog Flavio Troisi. Oggi, un microrganismo a forma di pallina da golf ci toglie quel paraocchi e ci offre un’opportunità straordinaria: riflettere. Mai abbiamo avuto così tanto tempo per farlo e prepararci al dopo. È la nostra ultima occasione. Ce lo dice proprio quel Francesco che stasera ha mostrato il Santissimo a Roma deserta, portandosi il dolore di tutti sulle spalle. Accettare la sfida di un cambiamento radicale. Subito, anche a costo di bruciare la vita. Avremo tempo di riposarci dopo.
Oggi il porto di Trieste sembra quello di Murmansk sull’Artico; le ancore non tengono e le navi al largo sono filate altrove al riparo. La temperatura percepita è meno cinque, alle code dei negozi resistono in pochi, piegati dalle raffiche. La natura ferita continua a ribadire ai sordi la sua supremazia. Siamo barricati, con vista sul deserto della terra, del mare e dell’aria, e la casa miagola, geme come una barca e talvolta rimbomba come un pianoforte pieno di vento. Ma è la città intera che pare un sismografo su linee di faglia. Qui sei al centro del Continente, arriva tutto in anticipo, a partire dai segnali del clima. È come star seduti su un atlante di geopolitica. Negli ultimi trent’anni, senza cambiare campo base, ho narrato la caduta del comunismo, la fine della Cortina di ferro, l’inizio delle guerre jugoslave, l’etno-populismo di Haider & soci, e il separatismo nordista in Italia. Poi sono arrivati i migranti. E ora, il tramonto dell’Occidente.
28 marzo
Quattro del mattino. La bora si è fermata di colpo e addio sonno. Un silenzio attonito, come di terminal ferroviario vuoto, rende ancora più nudo il deserto. A quell’ora, lo so, la stanza si riempie di ombre. Le vedo, sono lì nel buio anche oggi ad aspettarmi attorno al letto. Alcune raggomitolate a terra, altre in piedi, per non perdere la fila, come questuanti a uno sportello. Mi ricordano quelle che nel 2001 vidi nell’anticamera di non so quale notabile a Kabul, poche settimane dopo la cacciata dei Talebani. Oggi, quei fagotti inturbantati sono i pensieri. Hanno aspettato fino a quell’ora e adesso vogliono risposte, e subito. Non ho scampo, non posso più cazzeggiare. Devo ascoltare le loro istanze con pazienza, e annotarle subito.
Ecco cosa mi hanno detto. «Il pericolo vero sarà quando tutto sarà finito, quando ci scopriremo più poveri. Allora, ai padroni dell’economia del saccheggio, per restare in piedi, converrà lasciar sfogare la nostra rabbia sociale verso il basso, additandoci come sempre gli Ultimi come nemico, meglio se stranieri. Allora, tutti i fascismi del mondo, affascinati dal mito semplificante del capro espiatorio, saranno pronti a farsi cinghia di trasmissione di questa macchina. Li vedo, pronti a scatenare i loro branchi». «Non è più tempo di guardarsi l’ombelico. Ora i narratori hanno una responsabilità enorme, devono offrire visione, prospettiva, consapevolezza, speranza. Ma non una speranza astratta, beota. No, quella vera, che nasce dal suo opposto, dal fondo della disperazione. Come seppero fare i Benedettini, che rifondarono l’Occidente quando tutto sembrava perduto, con l’impero romano crollato e i barbari alle porte».
«Questa pestilenza può essere un’occasione unica, perché accelera la presa d’atto della fine di un sistema. Hoelderlin scrisse: là dove è il pericolo, lì e la salvezza. Sapremo guardare in faccia il mostro e capire dove andare?». «Ma cosa ci narreremo all’uscita dal tunnel se la nostra sarà una memoria solo virtuale, priva di odori, vento, voci, fango, pelle, polvere, sangue?» E ancora: «Ah, Salvini, che da casa appare in rete vestito da medico, camicia azzurro-ospedaliero e auricolari indossati stile stetoscopio. L’ho già visto indossare i panni del carabiniere, del minatore, del poliziotto, del pompiere. Un balletto per gonzi». «Vorrei scrivere un canto per i nonni che se ne sono andati in solitudine, senza il conforto dei loro cari, ma non ne sono capace. In un’ora simile ci hanno tolto proprio la morte ». «Di Julio Cortazar: “Eppure, nonostante tutto, solo noi, sappiamo essere così lontanamente assieme”. È un paradosso reale. Gli affetti veri sono resi più vicini da questa lontananza, che la reclusione generale rende più sopportabile. Si scrive a chi si ama come soldati in trincea».
Sulla cassetta della posta trovo un pacco-sorpresa per me. Lo scarto, è pieno di taccuini! Viene dal Veneto, sono Silvia e Alberto che mi incoraggiano a scrivere ancora questo diario e non vogliono lasciarmi a secco di carta. Piccole gioie dell’amicizia vera. La carta era già secondaria in tempi normali, per l’invadenza del web: figurarsi oggi che non è più “bene di prima necessità”, salvo, naturalmente la carta igienica. Il fatto è che ora che ho tempo per pensare scrivo più del solito, anche di notte. Quando la mia compagna mi trova un pacco di block notes al supermercato, alla cassa la gente la guarda male. Ma ho dei complici, per fortuna. La confraternita degli appunti scritti. Giorni fa mi ha scritto Checco da Padova: «Ho letto il tuo grido di dolore per la mancanza di taccuini e la difficoltà di procurartene. Avendo io per antica consuetudine conservato una piccola scorta di vari formati, dal tascabile al quaderno, se ti può servire e se mi dai un indirizzo te ne spedisco una piccola fornitura, pagabile in ombre parimenti rosse e bianche alla prima occasione». Cose che fanno bene al cuore.
29 marzo
Mio figlio Michele, che vive nelle Langhe, mi dice che la sera il suo piccolo (quattro anni) adora sentirsi rievocare vecchie vacanze passate con i genitori. La Sicilia, la casetta sul mare a Cipro, l’Olanda nella bici col rimorchio. È la cosa che più lo tranquillizza. Si addormenta in un nano-secondo. I bimbi hanno bisogno di essere rassicurati in questa emergenza, anche se sembrano prenderla sottogamba. Magari si divertono tutto il giorno e poi, la notte, ti rifanno la pipì a letto. Il loro problema è: cosa accadrà domani? In assenza di una memoria lunga che li riporti a tempi “normali”, sospettano che l’eccezionalità del tempo presente possa diventare definitiva. Giorni fa, con la bora che urlava alla finestra, la piccola Rebecca, che abita al piano di sotto e ha già dieci anni, ha chiesto alla mamma se quest’anno ci sarà l’estate. Allora devi rispondere: l’estate c’era e sempre sarà. Per questo i bambini hanno bisogno di sentirsi raccontare il passato. Per poter pensare al domani. Chi cresce con le fiabe, oggi così rare, si allena a tante cose che lo aiuteranno da grande. Impara per esempio che esistono i malvagi, o che nella vita c’è l’imprevisto. Ma soprattutto apprende a immaginare un futuro diverso e sorprendente. Che è esattamente quello che ci manca oggi.
Che fine hanno fatto i soci della compagnia del calicetto? Fino a ieri erravano come disperati attorno alla taverne chiuse d’angiporto, in cerca di un amico con cui dividere almeno la rabbia per quel tradimento. Oggi che non possono nemmeno uscir di casa, li immagino fuori di testa, depressi o maneschi col resto della famiglia, a partire dalla moglie. La polizia lo sa: ora che tutto è compresso nel privato, la violenza domestica decolla. Perché il problema non è avere il vino, che lo compri ovunque. È la mancanza del territorio libero dell’osteria, con il senso di clandestinità che si porta dietro. C’è da impazzire a saperle chiuse, senza un “Apriti Sesamo” che spalanchi la caverna di Alì Babà.
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